28.1.07

A day in the life.....




Tutto cominciò, secondo la Storia, a Liverpool, una mattina che John Lennon "il cattivo" incoraggiò "quel bravo figliolo" di Paul a marinare la scuola e a scrivere canzoni come "One After 909" (dieci anni più tardi inclusa nell’album "Let It Be"). Paul era compagno di scuola di George Harrison e nel 1958 "Little George", nonostante le resistenze di Lennon, finì con l’unirsi al gruppo, che allora si chiamava "Johnny and the Moondogs". Un anno più tardi, il complesso ottenne la prima scrittura, alla Casbah, e trovò il primo batterista, Pete Best. Nel 1960, di scena al leggendario Cavern con il nome di Silver Beatles i quattro ricevettero un’offerta per suonare ad Amburgo dove, per la cronaca, suonarono con "Mino e i suoi fratelli", cioè Reitano ed un improbabile Lucio Battisti. Ma questa è un’altra storia…

Rientrati a Liverpool, ebbero un ingaggio al Cavern, luogo tetro, stipato di gente, dall’atmosfera pesante, malvisto dai benpensanti. I primi sei mesi furono scoraggianti. I contratti discografici erano rari; nessuna casa discografica pareva interessata al rock and roll anni ‘50 che i Beatles suonavano. Finalmente, nel luglio 1962 i quattro incisero, fra le altre cose, Love Me Do e P.S. I Love You, che in autunno vennero pubblicate su 45 giri, entrando lentamente nelle classifiche.
La Storia racconta che nel 1963 il virus benigno ma fortemente contagioso si diffuse per le Isole Britanniche. In ottobre raggiunse la Scozia e, nel gennaio dell’anno seguente, Parigi. Un mese più tardi gli Stati Uniti erano caduti sotto il suo dominio, poi Copenaghen, Amsterdam, Hong Kong, l’intera Australasia. Le vittime, debolissime, con pupille dilatate, la testa fra le mani in estatica agonia, ora gementi, ora urlanti di gioia, cercavano disperatamente di unirsi ai portatori dell’infezione in un supersonico urlo d’estasi. Il loro grido annunciava l’arrivo di una nuova specie: con i Beatles aveva inizio una nuova epoca, quasi una mutazione genetica rispetto al passato.
A gennaio era uscita "Please, Please Me", primo successo del gruppo a raggiungere la vetta delle classifiche. Assediati dal pubblico anche durante le prove, seguiti alla televisione da 27 milioni di persone (più di quante avessero assistito all’Incoronazione della Regina), braccati dai giornalisti alla ricerca di fatti nuovi e di aneddoti liverpooliani, i Beatles sostituirono Dio e Sua Maestà nella scala dei valori esistenziali.
Sfrontati, ingenui, con forte accento dialettale, buon umore effervescente, ingegno vivace, e una micidiale propensione per i giochi di parole ("Quelli del loggione applaudano, alla prossima canzone" disse una volta John davanti al pubblico della Royal Variety "gli altri faccian pure tintinnare i gioielli"), i " favolosi quattro" erano così, e basta.
Si chiede Lanny Kaye nella sua "Storia del Rock": "Quale fu la causa della Beatlemania? Una reazione all’assassinio di Kennedy? La caduta dell’Impero Britannico? Mutazione genetica? Una precisa risposta forse non c’è; meno difficile spiegarsi perché tutto ebbe origine da un improbabile posto come Liverpool. Al pari di New Orleans, altra città musicale per eccellenza, Liverpool è un porto di mare, un luogo che assorbe un’ampia varietà d’influenze. Fu in quella cìttà che, per la prima volta in Inghilterra, vennero importati dischi americani. Inoltre, negli anni ‘50, i quartieri del luogo conobbero numerose bande di teppisti rock and roll. Non appena Rock Around The Clock comparve sugli schermi, cominciarono a formarsi le prime bande, che alla fine rivolsero principalmente il proprio interesse sui complessi del luogo. Il piccolo esercito giovanile aveva propri locali e anche un giornale musicale, il "Mersey Beat". A tal punto arrivava la fedeltà agli idoli della tribù che, quando nell’agosto del 1962, Ringo Starr lasciò la sua band e sostituì Pete Best come batterista dei Beatles, scoppiarono tumulti e Brian Epstein temette per la propria incolumità".
Con i Beatles ebbe inizio la moda del complesso, entità autonoma, identità collettiva a cui il pubblico poteva partecipare. 1 Beatles furono i primi di questi moschettieri del rock (uno per tutti e tutti per uno), giunti a quella struttura per via del potere unificante delle armonie vocali. Nelle prime canzoni, i quattro invitavano espressamente a entrare nella loro famiglia musicale, impiegando le canzoni come forma di dialogo con il pubblico. Di fronte a "Love Me Do", "From Me To You", "All My Loving", "I Want To Hold Your Hand",il pubblico rispondeva urlando...
Un’imponente campagna pubblicitaria, con 5 milioni di adesivi con la scritta " Stanno arrivando i Beatles " invase gli States.. In tre sole settimane, cosa mai accaduta prima, i Beatles arrivarono al primo posto. Quando scesero dalla scaletta all’aeroporto Kennedy, nel febbraio del 1964, vennero salutati da 10.000 fans in delirio. Avevano subito fatto colpo. Mentre i quattro passavano per i controlli doganali, migliaia di ragazzi scendevano le scale pettinandosi le acconciature con frangia, movendo le strette giacche a coda. I disc-jockey presero a misurare la temperatura in gradi Beatles, il tempo in Beatle-secondi. C’erano contenitorì di uova siglati Beatles, tappezzerie, bambole, magliette, parrucche, camicie da notte, orologi con la loro immagine. La leggenda racconta che un giornalista chiese: "Come avete trovato l’Amerìca?" e John rispose "A sinistra della Groenlandia".

Per dire.

John, Paul e George avevano suonato insieme per quattro anni prima di incidere il primo disco e proprio a quella lunga preparazione si deve il loro controllo sul linguaggio musicale. Ai Beatles vanno riconosciute le prime innovazioni nel rock. L’equilibrio delle diverse personalità, sia sotto il profilo musicale che sotto l’aspetto psicologico — ballate agrodolci per Paul, atteggiamento militante e giochi di parole per John , l’estro un po’ giocherellone di ringo, il misticismo di George— dava nuovi impulsi e creatività. Dato che tutti i brani erano scritti (almeno) a quattro mani, ne derivò un suono più vario e complesso di quello degli Stones.
Il rock and roll aveva costituito la maggior parte del loro repertorio, quando allo Star Club e al Cavern si esibivano in spettacoli di 6 o anche 8 ore ma i quattro non l’avevano mai considerata una musica vecchia, materia per esercizi di nostalgia. Per loro, quello stile era parte di una vicenda senza soluzione di continuità e nei personali rifacimenti, nelle citazioni, i quattro riportavano alla mente la vitalità e l’" immortalità" del miglior rock and roll. Il primo album suona come una dedica a quelle proprie radici, su "Help!" Paul imita alla grande Little Richard, in "I’m Down".
Ricordo ancora quando mi recai al cinema, all'epoca una sala da terza visione; avevo rotto abbondantemente per essere portato a vedere un film dei Beatles. Già da tempo conoscevo i vari 45 giri, soprattutto "A hard day's night" (il titolo, seppi dopo, fu suggerito a John da una battuta di Ringo) e "I should have known better", pezzi di una sonorità così nuova e sconvolgente per i tempi da provocare, in ragazzini così bravi, così "Dio Patria e Famiglia" e poco "fuori" come lo eravamo ai nostri tempi, degli autentici brividi con tanto di pelle d'oca e sudore freddo. Per tutto il film, forse eravamo nel 1967, quindi avevo una decina di anni, fu un continuo urlare assieme ai fans del film, quasi un concerto, la simulazione di un concerto, lo stare insieme per vedere qualcosa di così sconvolgente per noi, nella nostra città di provincia, insieme, gridando. Mai successo prima niente di simile. Mio padre, col suo Glenn Miller nelle orecchie, trasaliva. All'uscita dal cinema, ricordo, mi disse che se fossimo andati allo zoo almeno avremmo respirato aria pura (all'epoca nei cine si fumava....). La nostra rivincita di ragazzini sul melodico italiano, l'irrompere di un sogno di cui non si vedeva la fine, di possibilità diverse di essere ragazzi, di un mondo sconosciuto che avremmo voluto vedere e vivere. Un altrove che era Londra.
In quel film il regista , come trovai scritto anni dopo, fa fare di tutto ai Beatles e i Beatles fanno fare di tutto a lui. Loro impersonano se stessi e la beatlemania, allora all'apice; sono così naturali che non sembra neanche che stiano recitando.
Il primo album interamente composto da John, Paul e George, sulla spinta di una certa evoluzione musicale e lirica, è sicuramente "Rubber Soul", pubblicato nel dicembre del 1965, fu. Sino ad allora, John aveva limitato la perversa vena surreale ai suoi sforzi letterari ricchi di un qualche accento joyciano; dopo un incontro con Dylan a New York, però, l’artista cominciò a usare immagini maliziose anche nelle canzoni, che da "Norwegian Wood" in avanti acquistano in personalità. Gradatamente, i testi diventano quasi ermetici, come in "Strawberry Fields", "Across The Universe", "I Am The Walrus" e "Come Together" (vengono i brividi solo all’idea di un album che le contenga tutte insieme…). Con il sitar di "Rubber Soul", i quattro cominciano ad allargare anche il proprio vocabolario musicale e su "Revolver", forse l’album rock più innovativo di tutti i tempi, arrivano clavicembali, fiati,violini, nastri fatti girare al contrario: basta citare gli esperimenti elettronici di "A Day In The Life". Senza limiti tecnici o musicali, come l’uso di una marcetta che fa da tema conduttore a "Sergeant Pepper’s", il capolavoro psichedelico per il quale i Beatles vennero canonizzati da Timothy Leary come "I Quattro Evangelisti di Liverpool".
Quando tutto sembra andare di bene in meglio — erano le quattro persone più famose del mondo, "più popolari di Gesù", come John aveva detto sconsideratamente, alla ricerca dell’Illuminazione con l’aiuto del guru Maharishi — gli eventi cominciano a declinare. Prima la morte di Brian Epstein, per eccesso di barbiturici. Da quando i Beatles avevano smesso di girare in tournée, il suo mondo era crollato. Senza "Papà", come Paul lo aveva soprannominato, i Beatles finiscono col diventar preda della megalomania affaristica, di facili schemi psichedelici, di tautologie trascendentali, dilaniati da lotte intestine. Dai tempi del " doppio bianco ", nel 1968, John, Paul, George e Ringo praticamente smettono di suonare insieme. Il vero scioglimento avviene molto prima di quello ufficiale, nel gennaio del 1971. Il loro incredibile ottimismo che, per spontanea esuberanza, per energia, per immaginazione ci ha regalato una visione pulita del mondo viene a mancare, dopo un’ultima apparizione sui tetti di Abbey Road e, forse, del mondo. Tutto quello che con loro diventava gioco, con il teatrino discografico, con le canzoni-sciarada di John, con il Sottomarino Giallo, un gioco col quale si possano però risolvere i problemi del mondo attraverso la musica, spariscono su un malinconico "Let it be"; risolvere i problemi no, ma basta ancora una loro "Eleanor Rigby", "Michelle", "Yesterday" per sperarlo, per almeno un minuto, o per regalare un sorriso. O una lacrima..

5.1.07

Led Zeppelin IV - Una Scala verso il Cielo



Nomen omen”: e come il celebre dirigibile da cui hanno preso il nome, gli Zeppelin sfidano le leggi di gravità, viaggiando grazie ai gas infiammabili che li sostengono; sono loro, e non altri, gli indiscussi campioni del mondo dei complessi rock, categoria pesi massimi.
Quando nel 1968 Jimmy Page torna dalla Scandinavia con i suoi New Yardbirds non ha ancora un’idea precisa delle grandi possibilità di quel complesso. Come ultimo chitarrista dei vecchi Yardbirds, Page eredita lo scettro di quegli «sperimentatori del beat», dopo il concerto d’addio a luglio; Jimmy conta sul cantante-chitarrista Terry Reid e sul batterista Paul Francis per sostituire Keith Relf e Jim McCarthy, due dei membri originali del complesso. Reid ha però firmato un contratto come solista con il produttore Mickie Most ed è costretto a rinunciare; al suo posto, suggerisce di ingaggiare un giovane cantante di nome Robert Plant.
«Andai a vederlo» ricorda Jimmy «ed a quei tempi stava in un complesso chiamato Obbstweedle, che suonava nel college di un istituto magistrale appena fuori Birmingham. Ci saranno state una dozzina di persone in sala... una di quelle serate fra studenti dove si pensa innanzitutto a bere, e poi magari anche alla musica».
Page rimane indifferente di fronte allo stile «californiano» del complesso « ma Robert era fantastico, lo ascoltai quella sera e sentii poi un nastro di prova che mi diede e capii che senza dubbio aveva una voce fuori del comune, assolutamente originale. »
Plant, con la sua voce capace di coprire più di un’ottava e l’atteggiamento vocale estremamente libero che gli faceva spesso smarrire le parole per bizzarre improvvisazioni, è stato il personaggio adatto per librarsi in aerei voli in tandem con la chitarra di Page. Robert raccomanda inoltre un vecchio compagno di avventura, John “Bonzo” Bonham, e quando Chris Dreja smolla tutto per intraprendere la carriera di fotografo, al basso viene incluso John Paul Jones, un musicista di studio che Jimmy ha conosciuto a New York, noto per aver arrangiato, fra le altre cose, la celebre “Mellow Yellow” di Donovan. Abbandonato il nome di New Yardbirds («sarebbe stato come lavorare con false pretese»), diventano Led Zeppelin, sfruttando un’idea di Keith Moon.
In una piccola sala londinese, vera e propria base per le loro registrazioni, gli Zeppelin compongono il mosaico della propria musica. «Il primo disco è il risultato delle prime due settimane insieme. Fra di noi, scrivemmo sette pezzi e impiegammo soltanto trenta ore a inciderli. Penso che ciò sia dipeso dal fatto che avevamo tutti la massima fiducia in noi stessi ed eravamo realmente preparati; fatto sta che in studio non ci furono intoppi. Registrammo le canzoni cercando di attenerci il più possibile alla versione dei concerti dal vivo».
Nelle esibizioni in pubblico, gli Zeppelin s’impongono ben presto come grandi signori della scena, padroni di «trucchi» spettacolari. La loro musica varca l’Oceano con fragore di chitarre e tormenti vocali: alla radice dello stile c'è il blues, senza dubbio, le canzoni di Willie Dixon ("You Shook Me", "I Can’t Quit You Baby"), ricche di metafore sessuali e di giochi elettronici, strette fra la quiete di "Black Mountain Side" e le accelerazioni anfetaminiche di "Communication Breakdown". Page, frustrato nei suoi tentativi di dare un’impronta personale agli Yardbirds, si prende una bella rivincita, dando dimostrazione di una maestria strumentale che costringe immediatamente a rivedere la gerarchia dei chitarristi pop, a danno degli « intoccabili» Clapton, Hendrix e Beck. Già qualcuno si lancia sulle tracce degli Zeppelin, ma il vuoto creato dall’abbandono dei Cream richiede soluzioni grandiose. I Led Zeppelin sanno imporsi e, mentre declina l’effimera moda dei supergruppi (es. i Blind Faith), riescono a dimostrare di poter essere non solo i più grandi, ma anche i migliori. Non mancano i problemi, però. «Ci capitava questo,» ricorda Page, «che il pubblico era completamente dalla nostra parte mentre i giornalisti che ci stimavano si potevano contare sulle dita di una mano».
Non è proprio così, ma è certamente vero che, con l’arrivo delle «teste di ponte» del grande esercito del metallic rock (Deep Purple, Humble Pie, Black Sabbath, Grand Funk Railroad), agli Zeppelin, vittime del rapidissimo successo e della fenomenale potenza sonora, si domandano impietosamente continue verifiche.
Molte critiche, viste col senno di poi, erano peraltro infondate; pur se profeti del «nuovo rumore», gli Zeppelin s’impegnano coscienziosamente in tutti i brani. Questo emerge chiaramente quando Plant comincia a scrivere i testi, affascinato soprattutto dal misticismo e dalla civiltà celtica; la nuova tendenza affiora in "Led Zeppelin III", concepito in un «piccolo, derelitto cottage della South Snowdonia», Bron-Y-Aur, ameno luogo d’impiccati e briganti.
Dalla fine deI 1971, la critica comincia a rivedere le proprie posizioni. Se gli Zeppelin fossero davvero il complesso di sprovveduti di cui si parla, ci si dovrebbe attendere una affrettata serie di dischi e concerti, per sfruttare la formula di successo sino alla saturazione. Invece, non accade nulla di tutto ciò e anzi gli Zeppelin s’impegnano puntigliosamente, una volta tornati al lavoro, per sfuggire all’attenzione del grosso pubblico. «Possiamo fare l’esempio di un autore» spiega Plant in un’intervista «che scrive un libro di successo... Nessuno pensa di costringerlo a pubblicarne subito un altro perché così facendo diventerebbe schiavo di una situazione perversa... Lo si ripresenterà al pubblico quando sarà pronto, invece. Lo stesso vale per noi».
L’attesa del complesso viene ricompensata con il quarto album.
Se il secondo e il terzo album hanno avuto una gestazione difficile, il quarto batte ogni record. D’altronde, era nell’aria: gli Zeppelin cercano accanitamente il capolavoro, il loro "disco perfetto", e in quella spasmodica ricerca finiscono, ovviamente, per complicarsi la vita.

Ma lo trovano.

L’idea di caratterizzare il prodotto fuori dagli standard porta il gruppo a ideare la celebre copertina, priva di qualsiasi indicazione: invece delle classiche foto di gruppo, o di simboli forti come il Dirigibile dell’esordio, gli Zeppelin scelgono la vecchia foto di un contadino con una fascina di legna sulle spalle; sul retro la squallida istantanea di un suburbio metropolitano, metaforico contrasto fra "il circolo virtuoso della Natura" dei tempi andati e lo scempio distruttivo del presente.
Il nome "Led Zeppelin" non compare nemmeno all’interno della confezione, dove campeggia una riproduzione dell’Eremita dei Tarocchi; e sulla copertina interna, oltre la lista dei brani, la "firma" del complesso è rappresentata da quattro simboli misteriosi, a distinguere uno per uno i componenti. Qualcuno credette di leggere nella sequenza la parola "Zoso": quel termine, ancora oggi, è quello con cui i fans più incalliti chiamano il disco, che per la maggioranza invece è LED ZEPPELIN IV, secondo il sistema usato per distinguere i precedenti.
Per i discografici, il progetto significa un anno sulla graticola. L’idea che il nome del complesso non venga strillato né in copertina né sul dorso sembra un "suicidio commerciale"; uno choc superiore anche al celebre caso del “White Album” dei Beatles.
La storia li avrebbe smentiti.
Quell’album fuori da ogni regola non solo è una pietra miliare nella discografia rock, ma ha venduto quasi venti milioni di copie.
LED ZEPPELIN IV riprende e perfeziona il modello del disco precedente: rock incandescente, alternato a melodiche ballate di ampio respiro, dove emergono lo spirito folk della banda e il gusto di Page e Plant per una certa tradizione magico-esoterica.
La canzone "killer" dell’album è "Stairway To Heaven", senza alcun dubbio: l’inizio cadenzato, con toni quasi da madrigale, un flauto da ballata medioevale, il cambio di passo imposto dall’ingresso della batteria e il finale con uno dei più visionari assoli di Page, su un tappeto srotolato dall’incontenibile "Bonzo". L’idea originaria di Page (una semplice progressione di chitarra) era stata sviluppata dai quattro, e Plant alla fine trova i giusti versi, ispirandosi ad un libro, "Magic Arts In Celtic Britain", di Lewis Spence. Il dolce arpeggio iniziale, così semplice eppure così magico, come proveniente dalle più nere e remote foreste dell'anima, ha la capacità di incantare chi lo ascolta, sia la prima o la millesima volta. Plant, tra il cantato e il recitato, svolge un'ermetica filastrocca che parla di misteriose signore, di pifferai incantati, di mutazioni alchemiche. Il gioco continua, anche quando entra prepotentemente la dodici corde di Page (destinata a diventare un autentico oggetto di culto durante i concerti della band o negli ascolti di chi ci ha speso dei pomeriggi di ascolto...) e successivamente la batteria di Bonham; finalmente si giunge all'ultimo movimento del brano, in cui Page, come disse un critico dell'epoca, "si permette di parlare e darsi del tu con Dio", e Plant, abbandonati i toni madrigalistici, diventa il furioso cerimoniere destinato a celebrare un sabba orgiastico in cui le chitarre sembrano mille voci supplicanti, la batteria il tuono scagliato da una divinità impietosa.
Gli Zeppelin la inseriscono da subito nella scaletta dei loro spettacoli, splendida occasione virtuosistica per Jimmy Page e la sua Gibson SG doppio manico; a partire dal 1975, il brano diventa il gran finale dello show. D’altro canto però, coerenti con le opinioni espresse fin dal primo album, i quattro rifiutano di pubblicare il pezzo su 45 giri, e questo nonostante le pressioni dei discografici. Ciò non ha impedito alla canzone di diventare nel tempo l’inno più amato e conosciuto della band. L’ombra lunga di "Stairway To Heaven" non toglie spazio alle altre grandi ballate del quarto disco.
"The Battle Of Evermore", esaltata dal suono del mandolino e dalla (splendida) voce di Sandy Denny, la cantante dei Fairport Convention ospite d’onore, ha un sapore folk che rimane dentro. Il testo si ispira a un libro sulle antiche guerre dei clan scozzesi, felice variazione ai temi storici e guerreschi cari agli Zeppelin di quel periodo. Di tutt’altro tenore "Going To California", quasi un’appendice al terzo album. Suoni e colori in stile West Coast, una dama "con l’amore negli occhi e fiori tra i capelli", in cui qualcuno ha voluto riconoscere Joni Mitchell, oggetto di una infatuazione di Plant, che in un'intervista dell'epoca proclama album dell'anno "Ladies Of The Canyon".
Sul fronte dei pezzi più aspri e duri, nell'album i grandi classici sono "Black Dog" e "Rock & Roll": la prima è un rock saettante che arriva alla semplicità per vie tortuose (un arrangiamento complesso, quattro chitarre sovraincise nell’assolo); la seconda, come dice il titolo, è una compressa di storia musicale, vent’anni condensati in tre minuti e quaranta. Gli Zeppelin amano suonare in libertà con gli amici e così, da una jam notturna con Ian "Stu" Stewart (il "sesto" degli Stones), nasce il brano. John Bonham imita Little Richard, John Paul Jones cita un vecchio disco di Muddy Waters in cui gli "piaceva il suono di quella chitarra accompagnata da un basso rotolante".Fra tanti pezzi forti, "Misty Mountain Hop" e "Four Sticks" rischiano di scomparire, sospese come sono a metà tra rabbia e lirismo.
"Misty" sembra una coda del terzo album, con la sua aria felicemente informale, permeata da pianoforte elettrico e cori ubriachi; più sottile e complicata "Four Sticks", che prende il titolo dalle quattro bacchette impiegate da Bonham per venire a capo del pezzo.
L' album si chiude sulle note di "When The Levee Breaks", uno dei tanti tributi al blues classico. Il pezzo, composto da Memphis Minnie ai tempi della Grande Depressione, diventa l'occasione per scatenarsi in originali variazioni sul tema, con una poderosa figura batteristica di Bonham che apre la strada ai ricami bottleneck di Page e alle linee d’armonica di Plant. "Volevamo certe incisioni di Elvis giovane" ha confessato Robert Plant, mentre in un’altra intervista John Paul Jones ha svelato il "trucco" capace di caratterizzare il brano: "Eravamo a Headley Grange e ci divertivamo a provare tutte le cose bislacche che in studio non puoi fare: tipo mettere gli amplificatori nei posti più strani. A un certo punto spostammo la batteria di ‘Bonzo’ nel grande ingresso della casa, vicino ad una scala che dava ai piani alti e provammo a mettere un piccolo microfono al primo piano e un altro più in là, al secondo. L’effetto fu straordinario. Andy Johns passò poi quei suoni in un compressore e aggiunse un effetto eco. Ancora una volta la nostra curiosità aveva dato i suoi frutti !"
Ed è con brani come questo che si puo' supportare l'idea che i Led siano stati la più potente sezione ritmica della storia del rock: ascoltare per credere. Oltre che una potenza di fuoco dal vivo: come disse Page in un'intervista «vedere un mare di gente e capire che son venuti per te è una cosa che stupisce e mette anche un po’ di paura. Ma in fondo credo che una delle ragioni per cui la gente continua a seguirci e sempre ci ha seguito è perché noi cerchiamo di sforzarci sempre di più. Non ci siamo mai tirati indietro, non abbiamo mai lesinato il nostro impegno, abbiamo sempre sputato sangue. Che poi la musica ti piaccia o no, è un altro discorso. Quando hai fatto tutto quello che ti è possibile, allora sei contento di quello che vien fuori e riesci a evitare ogni compromesso».
Al punto che nella trionfale tournèe americana del 1973, quella passata alla cronaca nera per il furto di 180mila dollari (di allora...) in albergo, Page non si è fermato nemmeno di fronte alla frattura di un dito della mano sinistra. Ha immediatamente cambiato sistema d’accordatura, usando tre dita anziché quattro, e ha tirato avanti così, senza batter ciglio.