Sono sempre più convinto che,
quando parliamo o quando scriviamo, il linguaggio che noi usiamo non è uno
strumento di comunicazione casuale. Rivela molto di noi e del modo con cui
esercitiamo un ruolo o svolgiamo una funzione sociale. Infiniti malintesi,
risentimenti, diverbi dolorosi nascono di continuo da una parola usata con poca
attenzione alla raffinatezza nel sentimento della lingua.
Tutto ciò per dire che le parole comunicano, oltre ai concetti, anche atteggiamenti e pensieri nostri. Il valore che diamo all'altro e, dunque, il posto che gli diamo nella relazione, se vogliamo che lui ci sia o meno, emerge da come parliamo e scriviamo all'altro. Questo, anche se si scrive ad una entità astratta ed indefinibile come può essere quando si scrive sui nostri diari in rete, ma anche quando si scrivono documenti di lavoro, sia che si tratti di corrispondenza verso l’esterno sia che si scriva una nota interna. Per questo motivo è importante prepararsi, concedersi del tempo per esprimere con chiarezza e con efficacia ciò che davvero vogliamo comunicare.
E soffermarsi a riflettere, anche pochi istanti, sul peso e sull'uso di una parola piuttosto che di un'altra, per eliminare ogni dubbio e incertezza. Importante è avere nelle proprie corde l'intenzione e la sensibilità di comunicare davvero e di non autolimitarci nell'espressione per chissà quali automatismi, formule stereotipate o paure.
Questa riflessione parte da lontano: prima ancora della moda importata da Oltreoceano della Pragmatica della comunicazione, incentrata sul considerare la comunicazione quale azione dell'essere umano al pari delle altre, nell'anno di grazia 1905 un italiano, Edmondo De Amicis (si, proprio quello di “Cuore”), ne “L'idioma gentile”, racconta:
Tutto ciò per dire che le parole comunicano, oltre ai concetti, anche atteggiamenti e pensieri nostri. Il valore che diamo all'altro e, dunque, il posto che gli diamo nella relazione, se vogliamo che lui ci sia o meno, emerge da come parliamo e scriviamo all'altro. Questo, anche se si scrive ad una entità astratta ed indefinibile come può essere quando si scrive sui nostri diari in rete, ma anche quando si scrivono documenti di lavoro, sia che si tratti di corrispondenza verso l’esterno sia che si scriva una nota interna. Per questo motivo è importante prepararsi, concedersi del tempo per esprimere con chiarezza e con efficacia ciò che davvero vogliamo comunicare.
E soffermarsi a riflettere, anche pochi istanti, sul peso e sull'uso di una parola piuttosto che di un'altra, per eliminare ogni dubbio e incertezza. Importante è avere nelle proprie corde l'intenzione e la sensibilità di comunicare davvero e di non autolimitarci nell'espressione per chissà quali automatismi, formule stereotipate o paure.
Questa riflessione parte da lontano: prima ancora della moda importata da Oltreoceano della Pragmatica della comunicazione, incentrata sul considerare la comunicazione quale azione dell'essere umano al pari delle altre, nell'anno di grazia 1905 un italiano, Edmondo De Amicis (si, proprio quello di “Cuore”), ne “L'idioma gentile”, racconta:
IL SIGNOR COSO
"Tra
le sue qualità più notevoli vi era un profondo disprezzo per l’arte della
parola. Non che fosse propriamente taciturno: alle conversazioni degli amici
prendeva parte; ma accennava ogni suo pensiero con poche sillabe, in modo
informe, e masticava il resto con voci inarticolate, e con un atto del capo e
un cenno trascurato della mano invitava l’uditore a fare in vece sua il molesto
lavoro di compiere l’espressione dell’idea ch’egli aveva abbozzata. Con un “come
si dice?” si liberava dalla seccatura di dir la cosa; lasciava a mezzo ogni
periodo con un “insomma, tu capisci”; e con la parola “coso” faceva di meno di
mille vocaboli: “Sai, questa mattina ho visto coso, laggiù… Dice che per
quell’affare…tu sai… niente”. Fu lui che annunziò agli amici l’elezione del
nuovo Papa: “Eletto” disse. E gli amici: “Chi hanno eletto?”, “Coso” rispose.
(…). E con quale gioia si era impadronito del verbo cosare; “Cosami quel
fiasco”, “Bada, che ti cosi l’abito”. Poiché pensiero e parola nascono nella
mente gemelli, chi si disavvezza dall’esprimere il proprio pensiero, si
disavvezza a poco a poco anche dal pensare. Ecco cosa era successo al signor
Coso: egli pensava a pensieri indeterminati, monchi e sconnessi come il suo
linguaggio, e dall’inerzia del cervello gli era venuta una grande indifferenza
per ogni cosa. (…) Ma quanti sono quelli che, per infingardaggine
intellettuale, parlano presso a poco al modo di Coso? Il mondo ne è pieno. Ma
se l’uomo si può definire ‘l’animale parlante’, codesti non sono uomini… sono
cosi.(…)
Bada sempre, nel parlare, al viso di chi ti ascolta, che è un critico muto utilissimo, perché d’ogni parola stonata, d’ogni oscurità, d’ogni lungaggine, ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in un’espressione di stupore o canzonatoria, o interrogativa, o annoiata, o impaziente. (…). Certe idee non ci vengono neppure in mente perché non abbiamo le parole con le quali potrebbero venire. (…) Così, bada a non parlare una lingua approssimativa, se non intendi porre limiti ai tuoi pensieri."
Bada sempre, nel parlare, al viso di chi ti ascolta, che è un critico muto utilissimo, perché d’ogni parola stonata, d’ogni oscurità, d’ogni lungaggine, ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in un’espressione di stupore o canzonatoria, o interrogativa, o annoiata, o impaziente. (…). Certe idee non ci vengono neppure in mente perché non abbiamo le parole con le quali potrebbero venire. (…) Così, bada a non parlare una lingua approssimativa, se non intendi porre limiti ai tuoi pensieri."
Come la pensate?