21.4.15

Parlar male, pensar male.

Sono sempre più convinto che, quando parliamo o quando scriviamo, il linguaggio che noi usiamo non è uno strumento di comunicazione casuale. Rivela molto di noi e del modo con cui esercitiamo un ruolo o svolgiamo una funzione sociale. Infiniti malintesi, risentimenti, diverbi dolorosi nascono di continuo da una parola usata con poca attenzione alla raffinatezza nel sentimento della lingua.
Tutto ciò per dire che le parole comunicano, oltre ai concetti, anche atteggiamenti e pensieri nostri. Il valore che diamo all'altro e, dunque, il posto che gli diamo nella relazione, se vogliamo che lui ci sia o meno, emerge da come parliamo e scriviamo all'altro. Questo, anche se si scrive ad una entità astratta ed indefinibile come può essere quando si scrive sui nostri diari in rete, ma anche quando si scrivono documenti di lavoro, sia che si tratti di corrispondenza verso l’esterno sia che si scriva una nota interna. Per questo motivo è importante   prepararsi, concedersi del tempo per esprimere con chiarezza e con efficacia ciò che davvero vogliamo comunicare.
E soffermarsi a riflettere, anche pochi istanti, sul peso e sull'uso di una parola piuttosto che di un'altra, per eliminare ogni dubbio e incertezza.  Importante è avere nelle proprie corde l'intenzione e la sensibilità di comunicare davvero e di non autolimitarci nell'espressione per chissà quali automatismi, formule stereotipate o paure.
Questa riflessione parte da lontano: prima ancora della moda importata da Oltreoceano della Pragmatica della comunicazione, incentrata sul considerare la comunicazione quale azione dell'essere umano al pari delle altre, nell'anno di grazia 1905 un italiano, Edmondo De Amicis (si, proprio quello di “Cuore”),  ne “L'idioma gentile”, racconta: 

IL SIGNOR COSO
"Tra le sue qualità più notevoli vi era un profondo disprezzo per l’arte della parola. Non che fosse propriamente taciturno: alle conversazioni degli amici prendeva parte; ma accennava ogni suo pensiero con poche sillabe, in modo informe, e masticava il resto con voci inarticolate, e con un atto del capo e un cenno trascurato della mano invitava l’uditore a fare in vece sua il molesto lavoro di compiere l’espressione dell’idea ch’egli aveva abbozzata. Con un “come si dice?” si liberava dalla seccatura di dir la cosa; lasciava a mezzo ogni periodo con un “insomma, tu capisci”; e con la parola “coso” faceva di meno di mille vocaboli: “Sai, questa mattina ho visto coso, laggiù… Dice che per quell’affare…tu sai… niente”. Fu lui che annunziò agli amici l’elezione del nuovo Papa: “Eletto” disse. E gli amici: “Chi hanno eletto?”, “Coso” rispose. (…). E con quale gioia si era impadronito del verbo cosare; “Cosami quel fiasco”, “Bada, che ti cosi l’abito”. Poiché pensiero e parola nascono nella mente gemelli, chi si disavvezza dall’esprimere il proprio pensiero, si disavvezza a poco a poco anche dal pensare. Ecco cosa era successo al signor Coso: egli pensava a pensieri indeterminati, monchi e sconnessi come il suo linguaggio, e dall’inerzia del cervello gli era venuta una grande indifferenza per ogni cosa. (…) Ma quanti sono quelli che, per infingardaggine intellettuale, parlano presso a poco al modo di Coso? Il mondo ne è pieno. Ma se l’uomo si può definire ‘l’animale parlante’, codesti non sono uomini… sono cosi.(…)
Bada sempre, nel parlare, al viso di chi ti ascolta, che è un critico muto utilissimo, perché d’ogni parola stonata, d’ogni oscurità, d’ogni lungaggine, ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in un’espressione di stupore o canzonatoria, o interrogativa, o annoiata, o impaziente. (…). Certe idee non ci vengono neppure in mente perché non abbiamo le parole con le quali potrebbero venire. (…) Così, bada a non parlare una lingua approssimativa, se non intendi porre limiti ai tuoi pensieri."


Come la pensate?

14.4.15

Palabras andantes

Le pulci sognano di comprarsi un cane 
e i nessuno sognano di non essere più poveri, 
che un giorno magico piova all'improvviso la fortuna, 
che piova a catinelle la fortuna; 
ma la fortuna non piove né oggi, né domani, né mai,
né come pioggerella cade dal cielo la fortuna, 
per quanto i nessuno la invochino
e benché pruda loro la mano sinistra, 
o scendano dal letto col piede destro, 
o comincino l'anno cambiando la scopa.
I nessuno: i figli di nessuno, i padroni di niente,
che non sono, nonostante siano.
I nessuno: i niente, gli annientati, affamati, morendo la vita, fottuti, fottutissimi:
Che non parlano lingue, ma dialetti.
Che non professano religioni, ma superstizioni.
Che non fanno arte, ma artigianato.
Che non praticano cultura, ma folclore.
Che non sono esseri umani, ma risorse umane.
Che non hanno viso, ma braccia.
Che non hanno nome, ma un numero.
Che non figurano nella storia universale, ma nella cronaca nera della stampa locale.
I nessuno che costano meno della pallottola che li uccide.

[Eduardo Galeano, 3.9.1940-13.4.2015]



6.4.15

Palindrome sensazioni


Ci sono momenti in cui si cerca un rilassamento totale, ci si chiude nei pensieri e si cerca un supporto che ti parta dalle orecchie e bypassando il cervello ti arrivi in quello strano posto chiamato anima. Si, ci sono i tuoi compagni di viaggio, ma come gli antichi viaggiatori cerchi nuove terre, superi le colonne d’Ercole dei “grandi” e ti metti a remare in un oceano sconosciuto dove, dopo le onde alte, cerchi il riparo su una spiaggetta semplice, poco frequentata, dove ogni conchiglia lasciata dalle onde può diventare un monile.
C’era un tempo lontano, da ragazzo, in cui la semplice malinconia trovava la sua spiaggia nelle ballate di una miriade di autori i cui dischi diventavano, da più o meno introvabili a colonna sonora della giornata; altri che, riascoltati adesso, diventano come le madeleines di Proust.
Già, Proust che scrive: “
Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati madeleine, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della madeleine. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva? Che senso aveva? Dove fermarla?”
Così capita di rientrare a casa, cogliere al volo i titoli di coda di un film e restare colpiti da un qualcosa che assomiglia ad un indefinito sapore noto. Accesa frenetica del pc, ricerca in rete e salta fuori un nome, Neil Halstead. Chi è costui? Appurato l’appurabile, non resta che guardarsi un po’ di video e trovare “quel” gusto: la malinconia cantautorale perduta tra le corde di una chitarra ("nylon rock", come dice con ironia molto british lo stesso Halstead), fatta di ballate impastate in uno spleen agrodolce che trova tra i suoi ingredienti polvere di Nick Drake, una spruzzata di Neil Young, una aromatizzazione alla Bert Jansch.
L’album che ho trovato si chiama “Palindrome Hunches” e si muove su melodie dolcissime e autunnali, canto impalpabile e soffuso, un gioco di specchi fra chitarre acustiche, violino e pianoforte. Classico album che chiede di essere accolto con delicatezza e predisposizione d'animo, denso di melodie al confine della commozione, come quella magnifica “Tied to you” che ho scelto per questo spazio.

E che la musica tenga alto il nostro spirito!


1.4.15

Parole e pensieri/3


[Egon Schiele - L'abbraccio]


«Il dolore è passato. La vita lo ha trasformato in qualcos’altro; dopo averlo provato, dopo aver singhiozzato, lo si nasconde agli occhi del mondo come una mummia da custodire nel padiglione funerario dei ricordi. 
Passa anche il dolore provocato dall’amore, non credere. 
Rimane il lutto, una specie di cerimonia ufficiale della memoria.
Il dolore era altro: era urlo animalesco, anche quando stava in silenzio. È così che urlano le bestie selvatiche quando non comprendono qualcosa nel mondo – la luce delle stelle o gli odori estranei – e cominciano ad avere paura e ululare. 
Il lutto è già un dare senso, una ragione e una pratica. Ma il dolore un giorno si trasforma, la vanità e il risentimento insiti nella mancanza si prosciugano al fuoco purgatoriale della sofferenza, e rimane il ricordo, che può essere maneggiato, addomesticato, riposto da qualche parte.
È quel che accade ad ogni idea e passione umana».

 Sándor Marái, “Il gabbiano”, Adelphi, Milano