22.12.10

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Cibarsi di Radici

Anch'io volevo scrivere su di lui, sul grande&grosso professore che tutti avremmo voluto avere, ma dopo questo tuo post così emozionante mi ritiro in silenzio, che è meglio. E lasciare la parola a te che hai interpretato alla grande tutta una generazione, anzi, almeno due o tre, dato che anche i ragazzi più giovani ne hanno una conoscenza propria e ne affollano i concerti. Sai cosa? Forse lo abbiamo adottato in tanti perchè lo sentivamo “nostro”, con le sue poesie ma anche con le sue battute, forse perchè anche in concerto sembrava stesse all'osteria, quindi tra amici. A leggerla oggettivamente, non ha una gran voce, ma emoziona; non è un chitarrista stratosferico, ma le sue note sono calde; e ti dà l'idea di essere più pronto a darti una pacca sulla spalla che un pugno, con la sua aria da burbero benefico”: questo è un commento che scrissi tempo fa sul diario di una amica, dopo che lei aveva dedicato a Francesco Guccini un bellissimo ricordo.

E mi sono ripromesso di allargare il discorso, con quell’album che me lo ha fatto eleggere nel mio personale empireo (anche) musicale. Ed è strano come certi artisti entrino in una vita altrui per non uscirne: e Francesco, senza dubbio, è uno di questi.

L’arrivo era stato un po’ casuale, una vecchia cassetta in cui l’amico che tentò con scarsa fortuna di insegnarmi a strimpellare la chitarra, aveva registrato due dischi bellissimi, “Due anni dopo” e “L’isola non trovata”. Srnza, peraltro, metterci i titoli, ed una qualità audio...beh, qualità mai come in quel caso era un termine sprecato.
Un po' di c
anzoni più o meno le conoscevo, dato che il buon Guccini era pur sempre quello che aveva scritto “Dio è morto”, “Auschwitz” e tante altre canzoni per Nomadi ed Equipe84. E in quella torrida estate del ’72, tra un libro di greco, uno di latino e la maledetta matematica da riparare a settembre, l’estate era lunghissima e caldissima: occorreva un qualcosa che aiutasse la mente a restare sveglia.
“Ma solo questi due, ha fatto?”
“No, ce ne sarebbe anche uno prima, ma è pressocchè introvabile”
“Ma neanche a Bologna? E tu vuoi che Nannucci non ce l’abbia?”
[nota: Nannucci era, per noi provincialotti, una specie di Lourdes laica, per quanto riguardava i dischi. E le sue commesse vere e proprie vestali: bastava canticchiare qualcosa e te le vedevi apparire col magico LP tra le mani.]
Così, nel corso di un pellegrinaggio -ed è incredibile pensare come ogni spostamento Ferrara/Bologna somigliasse ad un vero e proprio viaggio della speranza all’andata, un ritorno degli Argonauti al ritorno carichi di quelle magiche sporte bianche- oltre al “famigerato” Folk Beat n.1 -pagato “ ‘na cifra”, ma soldi ben spesi, c’era questo disco nuovo.
“Radici”: scherzando, dissi che il titolo alludeva alla mia dieta alimentare delle settimane successive, dopo essermi dissanguato nel Tempio.

Invece la cosa era maledettamente seria.
La copertina, una foto ingiallita, lo sfondo del cortile di una vecchia casa, immortalati quelli che poi scopriremo essere almeno tre generazioni di Guccini, tra nonni, zii (tra i quali impareremo anni dopo lo zio “Amerigo”) e nipoti; sul retro lo stesso Guccini con la moglie, ad indicare la continuità della discendenza familiare.
Canzoni unite da un filo conduttore, l'identificarsi nella gente, in una comunità, perfino nelle pietre di una casa sul confine della sera, attraverso la ricerca e la riscoperta delle proprie radici, come recita la prima canzone omonima. Non una poesia, Guccini non è un poeta: è un, forse "il" narratore, tanto più che la sua inesauribile vena ha trovato ampio respiro in veri e propri romanzi.
Casa che non è solo un luogo come gli altri, presso Pàvana, sull'Appennino Tosco-Emiliano, ma al tempo stesso un mondo, un teatro di vicende che poi troveranno spazio nel libro “Croniche Epafaniche”.
“La locomotiva”, tributo alla canzone popolare, nello stile imparato da Dylan & dintorni, racconta una storia vera: il 20 luglio 1893, alla stazione di Poggio Renatico, il ventottenne fuochista bolognese Pietro Rigosi, approfittando dell'assenza del macchinista, sgancia la locomotiva del treno diretto a Bologna dal resto del convoglio e percorre con essa un tratto della linea a velocità folle, finendo poi con lo schiantarsi contro una vettura in sosta; il buon Pietro si salva, nonostante l’amputazione di una gamba, ed il fatto ottiene grande risonanza sulla stampa nazionale, dato anche quel triplice urlo in sintonia coi tempi: “trionfi la giustizia proletaria!”. L’epica della protesta politica, ma anche del coraggio non fine a se stesso, ma per una causa. Ad avercene…….

Ma le radici esistono anche in città, nella città dove si è cresciuti, specie se è una “Piccola Città” come Modena, “bastardo posto” e “nemica strana”, ma anche magico scenario dell'adolescenza, e che adesso appare “già nostra e ora incredibile e fredda”.
Come racconta Guccini stesso, “Piccola città” “è il mio secondo romanzo, Vacca di un cane, riassunto in una canzone (…) è la mia nemica strana, la mia adolescenza, il periodo forse più tragico della mia vita perchè nell’immediato dopoguerra le aspettative e le speranze erano tante e le possibilità di realizzarle quasi nulle”.
Ad arricchire musicalmente il disco, arriva la suggestione di “Incontro”, una sceneggiatura incisiva, quasi cinematografica, una meditazione sugli intrecci della vita raccontata al limitare della linea d’ombra dell’età che avanza, quando si comincia a sentirsi più vecchi e malinconici. Una delle canzoni più intimiste di Guccini, dove il triste incontro con un'amica, che narra le vicende tragiche di dieci anni di vita vissuta, si svolge in un'atmosfera che un verso come “stoviglie color nostalgia” basta da solo a raccontarci completamente.
Spesso in Guccini c’è un tema: quello dei ritmi “dell’uomo e delle stagioni”: lo ritroviamo anche in quel gioiellino che è la “Canzone Dei Dodici Mesi”, ricca di riferimenti a poeti che in vario modo hanno celebrato le stagioni, e ricca soprattutto di immagini che solo chi cerca di vivere ancora legato ai cicli della natura può riuscire a creare. E lui è senz'altro uno di questi: anche un saggio culturale, ricco di citazioni varie e nascoste, dalla poesia del Duecento a TS Eliot, da John Donne a Cecco Angiolieri.
Poi, scusate, ma cantare "Giugno, che sei maturità dell'anno, di te ringrazio Dio: in un tuo giorno, sotto al sole caldo, ci sono nato io, ci sono nato io..." è una soddisfazione in più......
Al centro della toccante “Canzone della bambina portoghese” c'è invece lo smarrimento, il non sapere che “la vera ambiguità è la vita che viviamo, il qualcosa che chiamiamo esser uomini...”; la perdita, sia pure momentanea, dei propri riferimenti, complice l'immensità dell'Atlantico. Una metafora della generazione che esce dal '68, che sa quello che ha lasciato ma non sa a cosa va incontro. Così la bambina portoghese che sulla spiaggia guarda l'Oceano che le sta di fronte, e non immagina cosa vi potrebbe trovare al di là. Bellissima la variazione musicale che cambia ritmo al brano.

Radici sono, nell’opera, anche i “miti del passato” a cui si abbandona un vecchio nel descrivere ad un bambino com'era ai suoi tempi la pianura che i due osservano: coperta di grano, con frutti, colori, alberi verdi, con “il ritmo dell'uomo e delle stagioni” non ancora cancellato dallo “sviluppo”: è “Il vecchio e il bambino”, nata in realtà come canzone contro l'olocausto nucleare, ma in sostanza un racconto che mantiene al centro la straziante nostalgia per un mondo perduto, che il vecchio ricorda piangendo.
E, in tutta sincerità, per quanto mi riguarda, un po’ anch’io con lui.

Auguri di lunga vita al Professor Francesco: anche se notoriamente nella tua (nostra?) isola non trovata tu sei riservato e un po’ orso, i critici musicali, anche se non più “militanti severi”, sono impegnati ad avvistare meteore, facendole passare per stelle luminose, e non a parlare di cari, vecchi, solidi e consolidati pianeti viventi, e noi “seguaci” non teniamo conto del calendario. E neppure dell'anagrafe, se contiamo le emozioni in profondità.

10.12.10

Due mani


Poi succede che il tempo passa, le cose si consumano e si logorano, ed arriva la mattina in cui ti trovi in buchetta un biglietto del caposcala che ti “ricorda” che la porta del garage è da riverniciare. Allora tu, che in cuor tuo sai di essere bisognoso di consigli, ma che non ti rivolgeresti mai (“orgoglio, e poi vergogna di me stesso”) ad alcuno dei tuoi condomini, compresi quei tuttologi che trasformano i pomeriggi estivi, grazie all’uso dei loro maledetti attrezzi da lavoro, in rumorose sessioni che riecheggiano quelle delle gloriose Officine Breda in Milano, ti poni la fatidica domanda: che fare?
Allora ho chiesto consigli a chi mi amministra: ai politici. Così, mi sono messo di buona lena, ho inviato la foto della porta semiarrugginita ad alcuni prestigiosi ed autorevoli esponenti politici, e ne ho ricevuto i seguenti consigli.
Tremonti: “Pev vivevniciave la tua povta, fai compevave la vevnice da tuo cognato titolave di pavtita IVA, che la povtevà in detvazione; poi inizi a dipingeve, ma dopo due pennellate fai vipovtave il bavattolo indietvo al negoziante,con la scusa che olezza; te ne fai dave uno nuovo in cambio, dal quale attingevai altve due pennellate, poi vipovti indietvo anche quello, e così via finchè non finisci la povta. A quel punto, con l’ultimo bavattolo che vestitusci, ti fai fave un buono spendibile pev una pvossima occasione, e magavi ti compvi un altvo oggetto coi soldi che vispavmi dalla vevnice, povca tvoia!”.
Fini: “Cavoli tuoi: mio cognato non ha di questi problemi
Casini: “Tu devi riverniciare quella porta per il bene tuo e di tutta la tua famiglia
Scajola: “Non saprei cosa dirti. La mia la riverniciano a mia insaputa”.
Rutelli: “Vai tranquillo, scenderà su di te lo Spirito Santo, e la sua mano guiderà la tua
Bersani “Oh, ciccio, se vai alla Coop c’è il 20% di sconto sulle vernici e sui pennelli, sorbole!
Vendola: “ C’è poesia nel dipingere una porta: lascia fluire la vernice come il blu di un cielo infinito ed il pennello come il vento tra le fronde, ed il lavoro ti sarà leggero e dolce
D’Alema: “Una porta, tsè…il dipingere, il “pittare” come si dice da noi, è tutta un’altra cosa
Bossi: “te, te devi da adupera’ smalto all’acqua, l’acqua del Dio Po, e la porta si vernicerà da sola
Il Cavaliere (nota: non lo nomino, perché di sicuro mi taglierei sulla ruggine e mi verrebbe il tetano, come minimo): “Ma cribbio….in che condizioni è questa porta! Del resto, in un palazzo costruito dalle cooperative rosse….Fa schifo, mi fa orrore….perché voi siete i…i…i soliti….comunisti!
Maroni: “Tipica porta da terroni
Veltroni: “E’ un po’ come in quel film, “La staccionata”, con Buster Keaton..non possiamo non ricordare Buster Keaton, tutti noi nati negli anni ’50 siamo cresciuti a panini, figurine e Buster Keaton….un maestro per tutti quelli venuti dopo
Mussolini (nel senso di Alessandra): “Non ci metto bocca
Carfagna: “Non ci metto lingua
Gelmini: “Puoi lavorare sotto l’ egìda di un buon manuale del faidathe
Santanchè: “Quante storie! La fai dipingere da un clandestino e quando ti chiede i soldi tu chiama i carabinieri
Cordero di Montezemolo: “ Ad occhio, tu hai il know how per realizzare con piena soddisfazione un very good job. Peccato non possa usare il Rosso Ferrari, ne uscirebbe un gioiellino”
Ma il consiglio forse migliore (tutti buonissimi, per carità) mi è arrivato da Di Pietro: “Eh santa madonna, che ci vo’? Un pennello, un barattolo, un maglione vecchio…mica devi stare a taglià il salame col cucchiaio..
Però lo smalto lo vado davvero a comperare alla Coop, tiè.