15.6.07

Nessuno uscirà vivo da qui


Lo sapevi che la libertà esiste
Nei libri di scuola
Lo sapevi che i pazzi dirigono la nostra prigione
Dentro una cella, dentro una galera
Dentro un bianco libero protestante
Maelstrom
Siamo appollaiati a capofitto
Sul ciglio della noia
Ci sporgiamo verso la morte
all’estremità di una candela
Sondiamo attorno per qualcosa
Che ci ha già trovati […]
La morte ci rende tutti angeli
E li mette le ali
Dove avevamo spalle
Lisce come artigli
Di corvo.
Basta coi soldi, basta coi vestiti pazzi
Quest’altro reame pare di molto il migliore
Finché nell’altra sua fauce l’incesto non appare
e scioglie l’obbedienza ad una legge vegetale
Non ci vado
Preferisco una festa d'amici
Alla famiglia del Gigante

(Jim Morrison – American Prayer)

Notte insonne.
Una telefonata che non arriva e che non sgombera la mente da pensieri inquieti.
Arriva, poi, un attimo prima del definitivo scoramento.
Il sonno se n’è andato all’improvviso, allora resti lì, giochi col telecomando, sbatti su un canale satellitare francese.
Immagini già depositate da qualche parte della memoria, dove non credevi di averle riposte, in attesa di un qualcosa di indefinibile.Sullo schermo tremolano vecchi brani di film: un incontro sulla spiaggia, due teste piegate all’ eterno moto dell’onda, i Doors in scena, Jim Morrison che alza il volto alla luce, agnello dalla dura carne; l’ ebete sollievo dell’alcool, l’ esorcismo della poesia, lo sciamano cui viene strappato il velo, mostrando un volto senza età, la lingua della lucertola che schiocca:
"that's the end..of the game, the end of the night...";
colore che va e viene, Jim che viene e basta.

Questa, dunque, "la fine della notte".
Più nessuna richiesta, per il passato o il futuro.

Allora ripensi a tutto quello che la storia ti ha lasciato dentro, su questi Doors, esistiti nella cruciforme Los Angeles delle illusioni, una foto stampata in giallo e nero, legati all’ albero, trafitti al cuore. E su cosa rappresenti Jim Morrison, che solo un fenomeno sociale come quello della mitizzazione delle rockstar e la spocchia di molti intellettuali benpensanti hanno tenuto lontano dalla categoria "letteratura", ed hanno impedito di prenderlo seriamente in considerazione come poeta, e poeta di talento, sulla scia di molti altri artisti "maledetti" riconosciuti, ma morti troppi anni fa per essere avvertiti come minaccia. Per esempio, Rimbaud, che Morrison amò al punto di scrivere una lettera appassionata ad un autorevole accademico americano che ne aveva curato la traduzione, Fowlie Wallace, ringraziandolo per il suo lavoro. A distanza di anni da quell'evento e dalla morte del giovane Jim, l'anziano accademico esperto di letterature comparate, ha scritto un saggio molto affascinante "Rimbaud e Jim Morrison. Il poeta come ribelle" (ed. Il Saggiatore). Quanto è lontana quest'immagine di Jim Morrison da quella descritta dal film di Oliver Stone e da tanto sensazionalismo fondato sulla ben nota ed ormai logora trilogia "sesso, droga & rock and roll"! La realtà è che nel 1968, l'allora venticinquenne Jim Morrison, nel pieno del suo successo, quando le cronache raccontano solo le sbronze epiche, gli abusi di droghe e le avventure con le grupies, è al contempo un fine lettore di poesia e letteratura francese, talmente inebriato dai versi del poeta "maudit", da sentire l'urgenza di scrivere all'illustre accademico - con la presunzione e la sicurezza che solo un'artista consapevole delle proprie qualità può permettersi - per complimentarsi con lui per il suo libro su Rimbaud.
Questo è solo un aneddoto ed uno dei moltissimi elementi che rivelano un Jim Morrison sconosciuto ai più: il grande poeta che egli sentiva di essere, al punto da rinnegare, negli ultimi mesi di vita, quel ruolo di rockstar che il fato gli ha cucito addosso, con la complicità del suo ego e di un pubblico giovanile desideroso di trovare uno sfogo ed una rappresentazione alla sua ansia di ribellione alla bigotta società americana (forse) degli anni '60.
Jim Morrison, la versione per l’inferno del paradisiaco Nick Drake, era uno studente brillante, originale, un divoratore di libri, anche insoliti e sconosciuti dai suoi stessi insegnanti, che lo adoravano per la sua intelligenza fuori dal comune e per la passione che infondeva nello studio, uno studio non ortodosso, non costante, non convenzionale, ma così vitale, autenticamente vissuto, da indurre i professori a lasciarlo fare ed anzi, a confrontarsi con lui in lunghi ed eruditi dibattiti che spesso lasciavano a bocca aperta i compagni di classe, e questo sia negli anni di liceo sia all'Università di Cinematografia dove si laureò.
Jim Morrison era ben conscio della sua profonda intelligenza.
James Douglas Morrison è sempre stato reticente sul proprio passato; "non voglio che venga coinvolto chi vuoi starsene fuori". Di lui si conosce una data di nascita (8 dicembre del 1943); una carriera scolastica che lo fa approdare, alla fine, alla UCLA, al Corso di Cinematografia. "Il cinema non conosce principio d’autorità" come scrive sulla sua resi di laurea "Tutti possono inventare un film nella propria mente. E la mancanza di esperti fa sì che, almeno a livello tecnico, ogni studente sia in grado di saperne quanto un professore…E' una sorta di scultura umana. In un certo senso è come l'arte, poiché dà forma all'energia, e in un altro senso è una sorta di consuetudine o ripetizione, uno schema ricorrente o una sacra rappresentazione significante. Pervade ogni cosa. E' come un gioco".
Lo stesso concetto può applicarsi alla sua musica.
Nel luglio del 1965, Morrison comincia a parlar di musica con Ray Manzarek, un compagno di scuola che si diletta a suonare le tastiere. Gli recita i testi di numerose canzoni già pronte. Ray contatta il batterista John Densmore. Due mesi più tardi, con i fratelli di Manzarek, Rick e Jim, alla chitarra, i Doors hanno già approntato un nastro di prova con dodici canzoni da sottoporre alle case discografiche.
Uno "scopritore di talenti" della Columbia Records, Billy James, rimane impressionato dal potenziale del complesso ed impone ai cinque un contratto a breve termine.L’ accordo però non ha seguito e i Doors tornano ad esibirsi nei locali notturni di Sunset Strip. Robbie Krieger, un chitarrista proveniente dalla giungla di musicisti californiani, si unisce alla formazione al posto dei fratelli Manzarek e il gruppo trova un ingaggio fisso al "Whisky at Go Go", per un periodo di quattro mesi. I Doors crescono in maturità musicale, Jim, dal canto suo, sulla scena si dimostra onnipotente; ed il gruppo comincia a raccogliere un notevole seguito di ammiratori. Il presidente della Elektra, Jack Holzman, li vede al Whisky durante la lunga permanenza e, dopo qualche esitazione iniziale, intavola con il gruppo serie trattative. L’ autunno del 1966 vede i Doors in studio, a registrare il primo album.
L’anima di William Blake presenzia al loro battesimo: "Ci sono cose che conosciamo e cose che ci restano ignote; in mezzo stanno le porte della percezione." Per anni questa frase verrà, erroneamente, attribuita a Jim stesso…
Il produttore Paul Rothschild qualche mese dopo in un’intervista su "Crawdaddy" ricorda: "Non ho mai provato tanta commozione in sala d’incisione .Mi impressionava il fatto che per la prima volta o quasi nella storia del rock and roll un vero e proprio dramma veniva registrato su disco". The Doors dimostra interamente le possibilità del complesso: i diversi brani rivelano le svariate facce della poliedrica personalità del gruppo. Per una "Back Door Man" che mostra le credenziali erotiche (e "Soul Kitchen" non è da meno), c’è "Twentieth Century Fox" con abbagliante neon di California e, un passo oltre, il quadro d’ epoca di "Alabama Song (Whisky Bar)", una canzone di Bertolt Brecht e di Kurt Weill. "Light My Fire" è il pezzo di punta (senza il lungo inciso strumentale sarà il primo, trionfale singolo), mentre "The Crystal Ship" offre passaggi per regni inesplorati, l’ "altra parte" di cui era evocata una traccia misteriosa in "Break On Through".
Lo sforzo definitivo dell’ album, "The End", è la canzone che chiude gli spettacoli dei Doors: creature dall’ incedere lento, che Morrison aveva voluto come liquido affresco di volti e immagini reduci da faticosi viaggi. "Vieni, bimba, prova con noi" è il grido lusingante, che rimarca terrori reali o immaginati e pulsazioni fosforescenti, disfacimento. Giù, lungo i corridoi, oltre ogni visione, incontro all’ abbraccio edipico. "Padre, voglio ucciderti. Madre, voglio fotterti... ", linguaggio bestiale dell’istinto primigenio. "Provai la sensazione di una purificazione emotiva" spiegò Rothschild nella già citata intervista a "Crawdaddy". "C’erano altre quattro persone nella cabina di regia, quando la registrazione terminò, e ci accorgemmo che il nastro continuava. Stavamo tutti ad ascoltare, sembrava quasi che le macchine da sole sapessero cosa fare. "
In modo fulmineo, Morrison e i Doors balzano alla celebrità, diventando i cuccioli prediletti dell’ underground americano. Quando "Light My Fire" sale in testa alle classifiche nazionali, nell’ estate del 1967, la base del loro successo si allarga ulteriormente; l’ispirata sensualità di Morrison trova posto senza fatica sia tra le pagine di "Vogue" che tra i fogli delle riviste giovanili. Per rendere l’idea, in tempi più recenti, solo Kurt Cobain ha una simile gloria.
In scena, l’ artista continua a superarsi, trova giustificazioni culturali alla propria sfacciataggine, muove tra il pubblico, coltiva frenesia e rabbia, tutt’uno col microfono. Sempre sull’ orlo del rischio, Morrison dà tutto di sé, come se ogni spettacolo fosse l’ultimo.
Arrivano, rapidamente, tempi più cupi. Paralizzati dalle opposte richieste del pubblico (chi voleva canzoni di successo, chi domandava "arte"), i Doors si trovano nella incapacità di conciliare le domande in maniera soddisfacente. Morrison, soprattutto, pare ora scoraggiato, ora pieno di stimoli. "La mia è una sorta di scultura umana" spiega a "Rolling Stone" "simile all"arte, perché dà forma all’ energia.., una consuetudine, qualcosa che si ripete, un progetto che abitualmente ricorre, una sagra con un certo significato. Qualcosa che pervade tutto." Troppo spesso, però, accade che i suoi tentativi di creare un certo clima cadano nell’ indifferenza; e se, d’ altro canto, l’ artista decide di portare una situazione alle estreme conseguenze, eguale disagio può leggersi negli occhi del pubblico.
Tutto questo viene reso chiaro dal secondo disco, dove vibra proprio quest’ aria donchisciottesca. Con Strange Days, la poesia si fa più formale ("Horse Latitudes"), la spavalderia più evidente ("Love Me Two Times"), il mosaico surreale di "The End" diventa l’ invocazione stridente di "When The Music’s Over". Ma i Doors, come la maggior parte della loro generazione, non ha ancora deciso cosa farsene del mondo, una volta arrivati alla stanza dei bottoni. In un certo senso, la svolta si era avuta con "Light My Fire".
Morrison cerca di comporre la frattura, ma finisce col peggiorare le cose. In "The Unknown Soldier", un brano del 1968 con tanto di accompagnamento scenico, sacrifica il proprio Io al grido di "La guerra è finita", sopravvivendo in scena per annunciare la buona novella.
Troppo facile.
Come troppo semplice è il suo messaggio al mondo della follia, dei sogni ebbri, della schizofrenia: con la stessa disinvolta facilità, si poteva starne certi, Morrison può diventar poeta segnato dal cielo. Con "Celebration of the Lizard" prende corpo un vecchio disegno epico; pure, del lungo episodio viene inciso un solo frammento, "Not To Touch The Earth". Col passar del tempo, la musica acquista in tessitura e ricami; Morrison, dal canto suo, scava la terra dell’ intima fantasia, materia ricca e grassa, secondo i riti della fertilità naturale. Ma forse la partita si gioca anche "dentro"; le pretese di una pop star contro le pretese di un artista. E forse era troppo presto per capire che la soluzione era a portata di mano, che le due cose potevano conciliarsi benissimo.
Comunque sia, il comportamento di Morrison si fa sempre più capriccioso; il culmine venne raggiunto nel marzo del 1969, quando l’ artista è arrestato durante un concerto al Miami’s Dinner Key Auditorium con l’ imputazione di "oscenità e comportamento lascivo in pubblico, per aver mostrato parti intime del corpo, simulando altresì la masturbazione e la copulazione orale"; le accuse più gravi vengono in seguito a cadere, ma Morrison finisce con l’ esser visto di malocchio da quelli del "giro" pop.
E poi ci sono altri problemi; i Doors hanno bisogno di fermarsi e di ripensare alla propria esperienza. I dischi di successo ("Tell All The People", "Touch Me") continuano senza sosta, la qualità dei 33 giri si mantiene elevata (alcune tra le opere migliori ancora dovevano arrivare; così The Soft Parade, così Morrison Hotel, con il suo sguardo al passato rock, e Absolutely Live, con la stesura completa della Celebration). Pure, Morrison capisce che è tempo di fermarsi a far benzina.
"Penso di essere una persona intelligente, sensibile, con l’anima di un clown che finisce sempre per risaltare, nei momenti più importanti" confessò a "Rolling Stone", candido più di un giglio.
Incapace di trovare una soluzione con i Doors, Morrison prova a cercarne una senza il complesso. Per L.A. Woman, settimo e ultimo disco per la Elektra, opera più che tranquilla, il gruppo decide di usare i propri studi personali. Pur continuando a bere come un tempo, Jim pare calmo, arrivato a un certo equilibrio; pubblica un libro di poesie, "The Lords and the New Creatures", e in altri volumi a tiratura limitata (così "An American Praver", nel 1970) dà libera espressione alla propria personalità.
Tradotti anche in italiano, su volontà dell’artista ("Tempesta elettrica" – Arcana Editore- 1970), incontrano notevole successo, ed il gruppo comincia ad essere conosciuto anche da noi, complice un giovanissimo Carlo Massarini ed un illuminante Paolo Giaccio, che nella neonata trasmissione radio "Per voi giovani" diffondono il Verbo e creano un’icona.
Manca poco alla fine, però, meno di quanto Jim possa immaginare.
L.A. Woman è il suo testamento a Hollywood, canzoni come "Riders On The Storm" (la mia preferita in assoluto) gridano a tutti la sua inquietudine, la precarietà della non esistenza e dell’alienazione. Ormai giunto nell’ "altra dimensione", Morrison si sente senza personalità precisa, incapace di tornare al punto di partenza. Consapevole di tutto ciò, lascia la California e fissa nuova residenza a Parigi, con la moglie Pamela. I Doors si abituano a lavorare senza di lui, operando in trio. Dopo aver cercato invano di mantenere la vecchia ditta senza il capo originale, John e Robbie formano la Butts Band. Ray Manzarek, dal canto suo, ritaglia un piccolo spazio personale, ostinandosi ad esibirsi come solista.
A Parigi, Morrison non esce dal "giro", tiene contatti telefonici con i vecchi amici e con gli "uomini del potere". Disturbi alle vie respiratorie hanno notevolmente diminuito la razione giornaliera di fumo; lontano dalle scene, Morrison scrive copiosamente. Il 3 luglio del 1971, si alza di buon’ ora per un bagno; Pamela lo trova lì, nella vasca, "un mezzo sorriso dipinto in faccia ", morto per infarto. La notizia non viene resa pubblica per parecchi giorni, sin dopo la sepoltura, avvenuta senza clamore nell’ angolo dei poeti del cimitero di Père Lachaise, a Parigi. "Non ci furono onoranze funebri" raccontò il manager Bill Siddons. "Solo qualche fiore, un po’ di polvere, il nostro saluto". Superfluo dire che tuttora è un continuo peregrinare di ragazzi di tutte le età, un tributo ad un poeta troppo giovane per diventare maledetto e troppo sensibile per diventare "vecchio".
Si lasciò morire per epica stanchezza esistenziale?
Scomparve per liberarsi da se stesso?
Tutto questo non lo sapremmo mai, ma nello storico cimitero del Père-Lachaise di Parigi i visitatori assicurano l’immortalità a

James Douglas Morrison
1943-1971
Artista, poeta, compositore

Così è scritto sulla sua tomba, dichiarata monumento nazionale.
Consegnandosi (consapevolmente o no) alla morte, Jim Morrison si è, comunque consacrato all’eternità.
Ci piace ricordarlo con questo ritratto:
"L'alcol era la panacea di Jim, la pozione magica che rispondeva ai suoi bisogni, risolveva i suoi problemi e gli appariva storicamente come 'la cosa da fare'. La sua distruzione era armonica rispetto all'immagine dionisiaca con cui si era identificato e che amava diffondere; era anche saldamente radicata nella tradizione culturale americana" (tratto da "Nessuno uscirà vivo di qui", J. Hopkins, D. Sugerman, ed. BluesBrothers).
Jim era perfettamente consapevole anche quando beveva. Amava dichiarare: "quando ti ubriachi, sei completamente controllato...fino a un certo punto. Ogni sorso che bevi è una scelta. Hai tante piccole scelte. E' come...credo che sia la stessa differenza che corre tra il suicidio e la lenta capitolazione".
E il valore di carburante creativo che attribuiva all'alcol e quindi il suo grande amore per la poesia sono espressi in questi versi:

"Perché bevo?
Così posso scrivere poesie.
Talvolta quando si è a fine corsa
ed ogni bruttura recede
in un sonno profondo
c'è come un risveglio
e ogni cosa rimasta è reale.
Per quanto devastato è il corpo
lo spirito cresce in energia.
Perdona a me Padre poiché io so
quello che faccio.
Io voglio ascoltare l'ultima Poesia
dell'ultimo Poeta"

1.6.07

33 & 1/3


"Dicono tutti che le mie canzoni hanno contribuito all'emancipazione femminile, ma all'epoca non ero davvero consapevole. Nella mia carriera non ho mai sentito che l'essere donna fosse un ostacolo o un vantaggio. Ho sempre pensato di essere ben accetta o respinta solo per quello che facevo"
(Carole King, da “L’Espresso” – febbraio 2004)

Ci sono Artisti che entrano nel cuore, nella memoria, nel Mito, nella leggenda, o più semplicemente sotto pelle, quindi nella Vita, con una canzone, con un album, con una riga di musica o parole: Carole ci è entrata con una collezione di canzoni intime e raffinate, che rappresentano, come dice lei stessa nella title track, la visione comune di chi puo’ affermare con sincerità che “la mia vita è stata un arazzo dalle mille sfumature, una visione duratura e cangiante”.
Quando esce "Tapestry" (siamo nel 1971) Carole King, a 29 anni, è già una giovanissima veterana, almeno come autrice: un brano scritto da lei ed inciso dalle Shirelles, “Will You Love Me Tomorrow”, ha spopolato nelle classifiche del 1960; ed in coppia con l'ex marito Gerry Goffin, ha scritto per Aretha Franklin, i Monkees, i Drifters, i Cookies, gli Animals e molti altri (addirittura la loro baby sitter, la diciassettenne Little Eva, resa milionaria da “The Locomotion”….); ragazzina prodigio dalle molte amicizie ed amori (Paul Simon, James Taylor, Neil Sedaka che nel '59 le aveva dedicato la celebre "Oh! Carol"), arriva alla soglia dei trent'anni con un grande bagaglio di esperienze e successi professionali, ma senza aver mai assaporato in prima persona la grande fama presso il pubblico, anche a causa di una forte paura del palcoscenico. E’invece una esordiente come artista solista (ha all'attivo solo un album, "Writer", ignorato dal pubblico). Per "Tapestry", Carole si gioca il tutto per tutto: nella sua tappezzeria recupera appunto “Will You Still Love Me Tomorrow", ed altre canzoni celebri, come "You've Got A Friend", portata al successo da James Taylor, o "(You Make Me Feel Like) A Natural Woman", resa celebre da Aretha Franklin. Furbizia commerciale, come sostiene qualcuno, o desiderio di affermare la genuinità della propria ispirazione? Non dovrebbero esserci dubbi, è un album che trasuda personalità fortissima e coesione intimamente connessa con la personalità dell'artista. E la conferma è proprio nei brani nuovi, scritti appositamente dalla autrice King per la interprete Carole, canzoni che fanno breccia, si insinuano appunto sotto pelle: si va dal frizzante r&b di "I Feel The Earth Move", al vibrante e luminoso gospel di "Way Over Yonder", alla devastante dolcezza pianistica di "So Far Away" o della title-track, il ritmo felpato e jazzato di “It's Too Late” (disco dell’anno, che come singolo spopola per radio e classifiche), la solidità melodica di “Home Again”, l'intreccio delicato della celeberrima “You've Got A Friend”, l’inno della riscoperta di un valore intimista come l’amicizia disinteressata (e trasversale) tra i sessi.

“Quando sei giù, quando sei nei guai
e hai bisogno di qualcuno che ti dia una mano
e niente, niente va bene,
chiudi gli occhi e pensami
e presto sarò là
a rischiarare le tue notti buie
devi solo chiamarmi
e sai che dovunque io sia
verrò di corsa, baby
per vederti di nuovo.
Inverno, estate, primavera o autunno
tutto ciò che devi fare è chiamare
e io ci sarò,
tu hai un amica”


In tutti i brani, corredati da arrangiamenti asciutti e discreti, la spina dorsale restano il pianoforte e la voce di Carole, ma sono decisivi anche gli interventi di chitarra acustica di Taylor, la chitarra solista di Danny Kortchmar, il basso asciutto di Charles Larkey, già compagni di gruppo nei City.E poi, lei, la sua voce limpida e acuta, che puo’ sembrare troppo educata, ma che si sa animare e colorare di impreviste sfumature, come nella sarcastica "Smackwater Jack" o nella già citata, splendida "Way Over Yonder". Carole vince la sfida della ribalta, dimostrando di essere un'interprete autentica, oltre che una ottima autrice, pienamente all'altezza delle proprie canzoni. Del resto le sue doti di autrice non sono mai state né in discussione e, forse, mai così brillanti: una scrittura leggera e assieme efficace, che sa impreziosire brani pop con disarmanti virate jazzistiche.L’album ha un immediato, clamoroso e meritato successo, anche per la sintonia con gli umori di un’ epoca. Molti hanno detto che "Tapestry" era la colonna sonora ideale per il doloroso risveglio dagli anni '60 e la fine del sogno hippy: Carole, più rassicurante di altri cantori del proprio intimo e privato, culla l’ascoltatore ricordandoci o insegnandoci che, anche nei momenti peggiori, "abbiamo un amico" disposto a correre in nostro aiuto. Un album che non cambia la vita di Carole nei rapporti col pubblico: lei vive in riservata discrezione, non è e non sarà mai una rockstar: lascia che siano le sue canzoni a parlare per lei.Un album da ascoltare sfasciati su un divano, occhi chiusi, un biglietto di un viaggio in tasca, un telefono tra le mani appeso tra una chiamata sfortunatamente non fatta ed una che vorresti fare ma non puoi, una sigaretta che potrebbe essere l'ultima della sera o la prima della notte.Un album intimo e raffinato, opera di una cantautrice di grande sensibilità che parla di sentimenti con semplicità e tatto; ma anche una perfetta macchina da classifica, un disco in grado di imporsi sulle radio e sugli scaffali dei negozi. Ecco, "Tapestry" di Carole King è tutte e due le cose contemporaneamente: e già in questo equilibrio c'è la grandezza di questo album. Uno dei rari casi di pop con l'anima, testimonianza più che mai vitale di un'età dell'oro in cui era possibile essere leggeri ma non superficiali, semplici ma non insulsi. E ancora oggi ci sono molte ragazze, da Norah Jones ad Alanis Morissette, che devono sicuramente qualcosa a Carole e al suo pianoforte.
Una foto non sbiadita nell’album di famiglia.