20.12.13

Tutti i colori dell' iris


Tra le croci e delizie della tv digitale terrestre [la cittadella è messa male, da questo punto di vista: essendo compressa tra i ripetitori veronesi e quelli sull'appennino bolognese, i segnali, proprio nel punto di incontro/scontro, si annullano, al punto che sapere in anticipo se si arriverà a vedere fino alla fine un film giallo diventa a sua volta un giallo], c'è questo canale, Iris, appunto.
Appartenente all'impero Mediaset, ha il grosso pregio di trasmettere film di ogni tipo, genere ed anno. Confesso: da vecchio cinefilo [o meglio, cinefilo vecchio] mi ci perdo, a volte anche a guardare cose che, da lucido, "mai al mondo". Però...succede che ti lasci cullare nella visione di vecchi film anni '50 e '60, e ti resta nella retina il vestito rosa "maison Givenchy" della divina Audrey Hepburn in Insieme a Parigi, quegli occhi immensi e il sorriso senza fine. Il gusto amaro che ti lascia la commozione, di fronte alla brutalità della vita: Anna Magnani che corre dietro il camion in Roma città aperta,  la folle lucidità di Albertone, sadico padre giustiziere nel ruolo forse più sgradevole della sua carriera nel Borghese piccolo piccolo
La crudeltà d'animo di Zampanò-Quinn che affogherà nelle lacrime di La strada, a fronte di Gelsomina-Masina semplicemente adorabile; fino alla più commovente di tutte, forse: il figlio di Mamma Roma legato sul tavolaccio della prigione come il Cristo morto di Mantegna.
Ma anche i giochi fatti di sensualità implicita e repressa: la cannottiera grondante sudore e testosterone di Massimo Girotti in Ossessione, ma anche le gambe della Mangano in Riso amaro; il fascino di Anna Maria Pierangeli, la Marilyn "de noantri" vista la tragica fine, che asciuga i dolori del giovane Newman in Lassù qualcuno mi ama. Il ghigno del grandissimo Franco Fabrizi, il più sgradevole e perfido vigliacco del cinema italiano. 
Ecco, vedere o rivedere questi vecchi film lascia anche una consapevolezza: non erano tempi migliori dei nostri. Di sicuro erano migliori, qualche volta, i registi; migliori, spesso, le storie; migliori, quasi sempre, gli attori. E non c'era bisogno di coca e pocorn per sentirsi grandi.

10.12.13

Una donna di nome Maria

No, non c'entrano (o centrano? boh...) ispirazioni religiose o arrivi notturni col treno dal Sud. Maria è solo una delle ospiti: lei dice di avere 73 anni, ma a quanto pare sono diversi anni che lo dice. Incurante del meteo, passa i pomeriggi nel cortile della struttura, quello da cui si è obbligati a passare per accedere ai vari nuclei.
La prima cosa che colpisce in Maria sono i lineamenti: una Sioux capitata per sbaglio in pianura padana. O, come dice qualcuno più concreto di me, la sorella maggiore di Drupi (lo ricordate, vero? quello che cantava canzoni romantiche con la voce impastata di carta vetrata e, in apparenza, un qualche tiro di peyote....).
Quando arrivo, mi viene incontro, un filo di voce quasi fanciullesca: "Signore....ha una sigaretta per me?". Ovvio. Ma la cosa che mi affascina è che, mentre la fuma, si mette a danzare seguendo i volteggi del fumo stesso, prima le mani a dirigere una orchestra immaginaria, poi veri e proprii passi di danza. Non so che storia abbia, davvero: c'è chi dice sia una nobile decaduta, chi una parente in incognito di qualche "pezzo grosso", chi invece si chiude in una rigorosa riservatezza. Ma anche chi racconta di un passato in prigione,  o di una vita comunque movimentata. Il sottile confine tra credibilità ed incredulità, tra chi si inventa non sapendo nulla, e le invenzioni che la vita a volte affida ad un qualche sceneggiatore un po' giocherellone.
Un pomeriggio del settembre scorso si è invitata al tavolino con mia madre, quando avevo portato un vassoietto di pasticcini mignon alla frutta: 

"Signore....
"Dimmi, Maria"
"Posso assaggiarne una?"
e mia mamma tutta entusiasta, rivolta verso di me: "Si, si, si...pensa che anche lei ha perso la sua mamma e dobbiamo aiutarla".

Non so perchè, o forse lo so benissimo, ma mi è sembrato di essere tornato indietro nel tempo, quando mia figlia, alle elementari, chiamava a casa per una merenda la sua compagna di banco.
La fragilità nella sua apparenza più nascosta.

3.12.13

Sleeping with ghosts

Frequentare una Casa Protetta per anziani è destabilizzante.
Mette in dubbio le poche certezze che uno aveva faticosamente accumulato negli anni passati. Grida disumane che non hanno nessuna reale ragione, se non la non-ragione; ombre lontane dello splendore che fu, sperso e sparso nei capricci infantili in un involucro che invece suggerirebbe altre considerazioni; l'odore del disinfettante che, a te esterno, rimane addosso come stimmate nell'olfatto e negli abiti, per non parlare dello spirito. La guerra delle curiosità delle altre su come sia il mondo "fuori", quando la riaccompagni dentro. Capannelli che tra un'ora neppure si ricorderanno di aver ascoltato. Improbabili caffè che alla ospite sembrano nettare, da macchine troppo complicate per chi di complicazioni non ha certo bisogno. Occhi spersi tra gli spettri dei ricordi che non vengono giù.
Fantasmi, nella mente delle persone care: che, quando ti riconoscono, anzi, se ti riconoscono, magari sanno di te il nome, ma certo non più il tuo averci un giorno convissuto.
Lo strazio di un saluto che non è mai abbastanza lungo rispetto ai rimpianti.
Del resto, è stata l'unica scelta possibile: nulla resta, se non quel sottile dolore  che, quando esco da lì, nessun fumo di nessuna sigaretta, nessun sapore di nessuna caramella, nessun caffè, niente, che riesca a cancellarlo. Quello rimane, come uno sparo nell'anima.
Grido, sottovoce. Dove diavolo è la tessera del parcheggio?