28.6.11

Dio salvi i Queen!

“E’ questa la vita reale? E’ solo fantasia questa? Intrappolato in una frana, non c’è scampo dalla realtà. Apri gli occhi, guarda in alto il cielo e vedrai: sono solo un povero ragazzo, non mi serve compassione perché sono una veloce apparizione un po’ su, un po’ giù; comunque soffi il vento, a me non importa molto, a me. Madre, ho appena ucciso un uomo, gli ho puntato la pistola sulla testa,  premuto il grilletto, ora è morto. Mamma, la vita era appena iniziata, ma ora sono andato e l’ho buttata via, mamma, uuu, non intendevo farti piangere: se domani a quest’ora non sono tornato vai avanti, vai avanti come niente fosse. Troppo tardi, è arrivato il mio momento, mi fa rabbrividire fin nella spina dorsale, il corpo mi duole per tutto il tempo. Ciao a tutti, devo andare, devo lasciarvi e affrontare la verità (…)Non voglio morire, a volte vorrei non essere mai nato. Vedo la piccola sagoma di un uomo, Scaramouche, Scaramouche, vuoi ballare il Fandango? Tuoni e saette, che paura, Galileo, Galileo, Galileo, Galileo, Galileo, Figaro – Magnifico.
“Ma sono solo un povero ragazzo e nessuno mi ama”“E’ solo un povero ragazzo di famiglia povera, risparmiategli la vita da questa mostruosità” “Non me ne importa, volete lasciarmi andare?” “Bismillah*! No, non ti lasceremo andare – lasciatelo andare” (…) “Mamma mia, mamma mia – mamma mia lasciami andare, Belzebù ha messo da parte un diavolo per me, per me, per me. Così pensate di potermi lapidare e sputarmi in faccia, così pensi di potermi amare e lasciare morire, oh baby – non puoi farmi questo, baby, devo solo uscire – devo solo uscire da questo posto. Niente è davvero importante,chiunque può capirlo, niente è davvero importante, niente m’importa davvero, comunque soffi il vento”
*nel nome di Allah misericordioso.

[Bohemian Rhapsody – Queen]

La Londra di metà anni ’70 era, musicalmente, una città strana: smarrita per sempre la rivoluzione beatlesiana, guardinga e diffidente verso quei gruppi come Stones o The Who, “americanizzati” e quindi visti ormai “alla frutta”, la mania in arrivo era il “glam”. Che avesse le forme più raffinate di Bowie & derivati, o la veste più popolare di personaggi come Marc Bolan  [coi suoi T.Rex] o Gary Glitter,  si era adagiata nella quiete di un sound “pulitino”, artisti che colpivano prima l’occhio poi la fantasia, grandi canzoni da classifica e poco più. Non a caso il grande filone del rock romantico o la furia devastante di Led Zeppelin o Deep Purple avevano maggiori riscontri [e seguaci] fuori dall’Isola. In questo scenario, arrivano tre musicisti legati dalla passione per la musica [uno di loro rinuncerà anche ad una imminente laurea in astrofisica: ma questa è un’altra storia…], trovano sulla loro strada un personaggio carismatico e poetico, che darà loro il la per una sperimentazione musicale a tutto tondo, che cattura l'ascolto e il respiro di chiunque si avvicini. Il gruppo si chiama “The Queen”: aveva pubblicato già tre  album rockettari, con cose buone sparse qua e là, ma nulla che apparisse sopra la media.  La svolta è del 1975: un titolo preso a prestito da un vecchio film dei Fratelli Marx, "A Night at the Opera". Molto più che un disco "importante"; è un'esplorazione a tutto tondo della Musica, quella con la M maiuscola. E’ il capolavoro di un gruppo che a soli tre anni dalla sua nascita ha trovato quel delicato equilibrio alchemico che riesce a unire personalità artistiche molto diverse ed allo stesso tempo complementari. Disco dominato dalla schiacciante ispirazione di Freddie Mercury, qui al pieno delle sue possibilità espressive, che elabora le personalità dei compagni di viaggio grazie alle quali sperimentare le commistioni sonore più stravaganti. Il disco parte con un irrequieto assolo di pianoforte che accompagna il pensiero verso un crescente caos di sirene e aride note di chitarra; al culmine del suono, tutto si ferma e inizia la prima canzone, "Death on two legs", dedicata al precedente manager del gruppo. Canzone cattiva, acida in note e testo, batteria aggressiva e “sporca”, una chitarra che suona come un lamento.  “Mi succhi il sangue come una sanguisuga, infrangi la legge e predichi, mi opprimi il cervello finché fa male. Hai preso tutti i miei soldi e ne vuoi di più, vecchio mulo mal guidato con le tue regole cocciute, con i tuoi meschini amiconi che sono stupidi di prima categoria (…)Sei solo un vecchio venditore ambulante, hai trovato un nuovo giocattolo per sostituirmi? Mi puoi affrontare? Ma ora mi puoi baciare il culo, ciao ciao”.
Incredibile, poco più di un minuto, la successiva "Lazing on a Sunday afternoon": quasi un brano da operetta, compresa l’intonazione lirica di Mercury. Anche visivamente, l’idea era quella di giovani (neo)dandy a spasso nella campagna inglese in bici, magari con la t-shirt sotto la giacca… Poi, il simpatico sberleffo di  "I'm in love with my car", scritta e cantata da Taylor: il coro a sottolineare la voce del solista, un violino che gioca a fare la chitarra elettrica, e la chitarra suonata a mo’ di violino, rumori di motore che invadono tutta la canzone; "You're my best friend", dolce dichiarazione di amicizia che suona un po’ come certi singoli della Motown. E “39”, cui è legato un mio ricordo personale, di schitarrate e tamburelli in spiaggia tra amici, un tono country, l’ideale per fare un po’ gli scemi perdendosi (invano) negli occhi di una ragazza che, diciamo così, non si poneva proprio il problema.
Si ritorna al rock con "Sweet Lady", con le schitarrate iniziali, Freddie con una voce sempre corposa, ritmo non esagerato ma stuzzicante: decisamente da riscoprire (io all’epoca la saltavo, beata incoscienza…). Poi, il tuffo nel passato, ed è subito "Seaside Rendezvous": una canzone in bianco e nero, tra tip-tap. fischiatine,  Freddie che dal vivo si esibiva con la parrucca di riccioli biondi stile Shirley Temple. Divertimento allo stato puro, e non solo per la band. Ma la sperimentazione dei Queen non lascia spazio, ecco arrivare "The Prophet's Songs": gioiellino firmato da Brian May, otto minuti di tutto, dai cori gregoriani agli inni medievali, dal rock dilatato alla riflessione mistica, dal canto a cappella all’assolo acutissimo di Mercury.  Qualunque altra band, con gli spunti buttati in questa canzone, ci avrebbe fatto un intero album. Splendida quanto trascurata.
"Love of my Life" inizia. Chiudete gli occhi, ed aprite l’anima:  pianoforte morbosamente romantico, un testo che, tra le parole e (soprattutto) il modo in cui vengono cantate, ti sega a metà, un grido di amore disperato e rimpianto, una supplica come una carezza, note di chitarra come quei pensieri che ti arrivano all’improvviso addosso e ti fermi a sorridere senza un motivo, ma ti senti meglio.
Terz'ultima canzone del disco, "Good Company", classica canzone alla Brian May, carina, briosa il suo giusto,  da fischiettare in bici mentre torni a casa col pane caldo. Un attimo di relax prima del capolavoro assoluto della band, "Bohemian Rhapsody" . Di cui non parlerei:  ogni parola aggiunta sembra uno spreco, un oltraggio, come guardare la Pietà in San Pietro dietro la vetrata dopo le martellate del pazzo. Hard rock, lirica, canto popolare, tutto concentrato nei cinque minuti che sembrano cinquanta, la sensazione di attraversare,  come il protagonista della canzone, mondi e situazioni prima sconosciuti, carnefice e vittima di una schiera di diavoli affamati della sua anima.
Per chiudere, "God Save the Queen", versione particolare, e non a caso,  dell'inno nazionale Inglese, chiude il disco, come farà con tutti i concerti del gruppo. E ti lascia il dubbio addosso:  Freddie Mercury avrebbe voluto diventare un giorno, “da grande”,  Regina d’Inghilterra, od almeno dei suoi spiriti buoni?

17.6.11

Quattro Si

Quest’anno giocavo sul sicuro, dopo aver saputo che avrei avuto un seggio al femminile: al limite, al lunedi sera avrei potuto avere anch’io “le mie cose”. La tensione, altissima, era dovuta ad altre cause: in primis, il raggiungimento del quorum. Ore ed ore di volantini, di mail spedite a chi sapevo incerto, di banchetti davanti al supermercato, e le fughe di fronte alla pioggia improvvisa, di colloqui coi vicini di casa, le amiche di mamme e suocere, con gli amici dei figli, ecc.ecc. , le 72 ore dentro la scuola sede del seggio: tutto questo non poteva finire nel nulla, non un’altra volta ancora.

Sabato. Arrivo nella scuola, le solite sei sezioni, un clima, tra presidenti, quasi da primo giorno di scuola mentre arrivano anche gli altri componenti dei seggi. Gente che si conosce, saluti, battute. Ci sono un paio di dipendenti comunali che probabilmente sono in questo seggio dai tempi del referendum Repubblica-monarchia, perché conoscono tutti e tutti li conoscono. Poi i Carabinieri, che mi chiedono i documenti e compilano un verbale in cui sento risuonare un “ivi residente” che suona come un viaggio nel tempo, un po’ come le matite copiative, od il timbro, che è proprio uno  -non “come”, proprio “uno”-  di quelli che si vedono nei film di Sordi o Totò, o la scritta “lembo da umettare” sulle buste. E ben dodici nomine di rappresentanti di lista: ovviamente, voteranno nel mio seggio, quindi un quorum del 3% in partenza è già assicurato. Validazione delle schede, scrutatrici bravissime, veloci ed efficienti –ovvio, sono donne- ed il sabato si chiude qui, si infila (quasi) tutto in buste, chiuse e firmate; si sigillano e firmano le urne; si mette lo scotch perfino sulle finestre, sulla porta chiusa a chiave, chiave che mi devo portare a casa: nessuno può entrare nella notte. Cosa dovrebbero entrare a fare, poi?
Discuto col vigile urbano  -a proposito di fuga dei cervelli: fisicamente una specie di Dino Risi ma col cervello di Gasparri, avrei preferito il contrario-  sulla opportunità di lasciar parcheggiare dentro il cortile della scuola o meno [lui sostiene di no, io ribadisco che chi accompagna elettori fisicamente impediti deve essere agevolato, che non è un “favore” ma un “diritto”: poi dopo che ho contribuito ad organizzare il Taxiquorum ci mancherebbe altro…]. Appuntamento per la domenica mattina, tutti qui alle 7.50 che almeno abbiamo il tempo di mangiarci le brioches calde che come presidente gentilmente offrirò alle mie vittime…

Domenica. Finalmente, ore 8 e si vota: in verità, c’erano due elettori che evidentemente credevano si votasse dalle 7, mi hanno guardato con odio quando ho detto loro di aspettare: mi sembrerà ovvio farli partecipi delle pastarelle…Spalanchiamo le finestre per il caldo (come faranno i ragazzi nelle ore di scuola?), e già alle 9 ci sono i primi cenni di coda, ne  traggo buoni auspici. Mi emoziono quando viene a votare un signore, classe 1917, che mentre ritira le schede racconta del suo primo voto da cittadino libero, proprio quello del referendum Repubblica-monarchia, del viaggio notturno con l’attraversamento clandestino a Ventimiglia, col dubbio atroce di essere arrestato come disertore: difficile non sentirsi quella improvvisa sensazione di umido a solcare la guancia. Lo abbraccio, lo ringrazio, sa di libertà conquistata a caro prezzo. Andatevene al mare, coglioni, non meritate un paese civile.
Porto il fonogramma con l’affluenza delle ore 12 alla “comunale”: il mio 22% mi sembra addirittura esaltante, mentre lei ne approfitta per chiedermi se io sappia il nome del 22 orizzontale “musicista de L’Orfeo”. Intanto, uno dei CC ha preso di punta una mia scrutatrice, sono lì che caffeggiano alla macchinetta: l’armonia si spezzerà alle prime luci dell’alba del lunedi, quando viene a votare un trans: lei lo ammira per lo smalto delle unghie, mentre lui userebbe un lanciafiamme. Tra un elettore e l'altro si chiacchiera: ovviamente, essendo il più anziano, mi metto a raccontare un po’ di aneddoti, compreso quella scheda nulla di qualche referendum prima, dove il quesito originale era stato cancellato e sostituito da un lapidario “Ti scoperesti la scrutatrice bionda?”.
Le ragazze ridono, non indago sulle reazioni ad un eventuale ripetersi della causa di nullità del voto….
Ed alle 20.35 scene di giubilo: nel mio seggio si è raggiunto il quorum. Tra l’altro, il mr. 50%+1 è un ex consigliere comunale pidiellino: non sto neppure a raccontare il sapore che aveva la sigaretta che mi sono andato a fumare subito dopo.
Invece, alle 21.45 scatta l’Unità di Crisi: una elettrice con passeggino e neonato dalla voce particolarmente acuta al seguito ha dimenticato di ritirare cellulare e documenti. Una delle Maxi’s Angels  [così le ho ribattezzate: chiamarle “badanti” mi sembrava umiliante…] parte di scatto, la raggiunge mentre il groviglio di ruotine e pupo piangente oppone strenua resistenza all’essere alloggiato sul divanetto posteriore di una spettacolare Giulietta rosso Alfa. Impariamo così che il marito è incollato dalle sette di sera a guardare il GP: farò in tempo a vederne anch’io la fine, sperando che il referendum non faccia la fine delle Ferrari.

Lunedi. Bene: se persino il ministro degli Interni dice che il quorum si raggiungerà, l’aria frizzantina del mattino ha un sapore ancor più dolcedolce. Alle 7 arrivano i primi elettori, una coppia di ragazzi che evidentemente ha passato la notte al mare. Mi colpisce il fatto che abbiano una trentina d’anni e non più di quattro o cinque timbri sulla tessera: se mia figlia a 23 ne ha già collezionati 8, significa che arrivano anche dal mare dell’astensionismo. Decisamente incoraggiante. Mattina tranquilla, flusso incessante, alla fine i miei votanti saranno intorno al 68%; in termini assoluti, persino due in più rispetto alle Regionali di un anno fa. Mi colpisce la storia di una delle rappresentanti di lista: quando leggo che è di Lauria, e dico “ma è il paese di Rocco Papaleo” lei si apre in un sorriso, mi chiede se ho visto “Basilicata coast to coast” ed alla mia risposta affermativa –e con moolto gradimento- si illumina in un sorriso che definire solare è persino riduttivo. Abita qui in centro, è fidanzata con un pizzaiolo siciliano che abita a Bologna e gestisce una pizzeria in provincia di Modena: melting pot in salsa mediterranea, of course.
Ore 15: si scrutina. Nessun problema particolare, anzi, un piacevolissimo sottofondo autorizzato dal Presidente me medesimo, la scrutatrice-pianista ha sull’Ipad uno spettacolare “Piano Concerto opera 33” di Richter, ed è la prima volta che si fa lo spoglio ascoltando musica. E’ anche la prima volta che in 35 anni di seggio non trovo neppure una scheda bianca: bene, molto bene. I Si che variano dal 97,7% per abrogare il nucleare al 90,1 per cancellare il legittimo impedimento (e ripenso al mio Mr. Quorum: non più di tre pugnalate, ovviamente alle spalle, ma senza infierire).
Fine, si chiude: dalal radio notizie trionfali sul quorum raggiunto, restituisco la cassa di plastica [aka “la bara”] ai funzionari del comune e mi godo la vittoria. Arriva l’sms che annuncia la festa in piazza: ci andrei anche volentieri, se fossi sicuro della assenza di chi, nel mio partito, ancora una settimana fa invitava a votare No per l’acqua. Mi rivedo l’Albertone ed il suo “usscia via, brutta bertuccia!” : sulla strada di casa c’è una eccellente gelateria artigianale,  un cono ricotta&fichi mi semra una giusta celebrazione ed un adeguato risarcimento morale. Abbiamo vinto, e chi se lo scorda più, quel gelato?

14.6.11

Cibarsi di radici


Anch'io volevo scrivere su di lui, sul grande&grosso professore che tutti avremmo voluto avere, ma dopo questo tuo post così emozionante mi ritiro in silenzio, che è meglio. E lasciare la parola a te che hai interpretato alla grande tutta una generazione, anzi, almeno due o tre, dato che anche i ragazzi più giovani ne hanno una conoscenza propria e ne affollano i concerti. Sai cosa? Forse lo abbiamo adottato in tanti perchè lo sentivamo “nostro”, con le sue poesie ma anche con le sue battute, forse perchè anche in concerto sembrava stesse all'osteria, quindi tra amici. A leggerla oggettivamente, non ha una gran voce, ma emoziona; non è un chitarrista stratosferico, ma le sue note sono calde; e ti dà l'idea di essere più pronto a darti una pacca sulla spalla che un pugno, con la sua aria da burbero benefico”: questo è un commento che avevo lasciato sul diario di Linda qualche giorno fa, dopo che lei aveva dedicato a Francesco Guccini un bellissimo ricordo. 

Ed oggi, che il professore compie gli anni, mi sono ripromesso di allargare il discorso, con quell’album che me lo ha fatto eleggere nel mio personale empireo (anche) musicale. Ed è strano come certi artisti entrino in una vita altrui per non uscirne: e Francesco, senza dubbio, è uno di questi.L’arrivo era stato un po’ casuale, una vecchia cassetta in cui l’amico che tentò con scarsa fortuna di insegnarmi a strimpellare la chitarra, aveva registrato due dischi bellissimi, “Due anni dopo” e “L’isola non trovata”. Srnza, peraltro, metterci i titoli, ed una qualità audio...beh, qualità mai come in quel caso era un termine sprecato.
Un po' di canzoni più o meno le conoscevo, dato che il buon Guccini era pur sempre quello che aveva scritto “Dio è morto”, “Auschwitz” e tante altre canzoni per Nomadi ed Equipe84. E in quella torrida estate del ’72, tra un libro di greco, uno di latino e la maledetta matematica da riparare a settembre, l’estate era lunghissima e caldissima: occorreva un qualcosa che aiutasse la mente a restare sveglia.
“Ma solo questi due, ha fatto?”
“No, ce ne sarebbe anche uno prima, ma è pressocchè introvabile”
“Ma neanche a Bologna? E tu vuoi che Nannucci non ce l’abbia?”
[nota: Nannucci era, per noi provincialotti, una specie di Lourdes laica, per quanto riguardava i dischi. E le sue commesse vere e proprie vestali: bastava canticchiare qualcosa e te le vedevi apparire col magico LP tra le mani.]
Così, nel corso di un pellegrinaggio  -ed è incredibile pensare come ogni spostamento Ferrara/Bologna somigliasse ad un vero e proprio viaggio della speranza all’andata, un ritorno degli Argonauti al ritorno carichi di quelle magiche sporte bianche-  oltre al “famigerato” Folk Beat n.1  -pagato “ ‘na cifra”, ma soldi ben spesi, c’era questo disco nuovo. 
“Radici”: scherzando, dissi che il titolo alludeva alla mia dieta alimentare delle settimane successive, dopo essermi dissanguato nel Tempio.

Invece la cosa era maledettamente seria.
La copertina, una foto ingiallita, lo sfondo del cortile di una vecchia casa, immortalati quelli che poi scopriremo essere almeno tre generazioni di Guccini, tra nonni, zii (tra i quali impareremo anni dopo lo zio “Amerigo”) e nipoti; sul retro lo stesso Guccini con la moglie, ad indicare la continuità della discendenza familiare.
Canzoni unite da un filo conduttore, l'identificarsi nella gente, in una comunità, perfino nelle pietre di una casa sul confine della sera, attraverso la ricerca e la riscoperta delle proprie radici, come recita la prima canzone omonima.  Non una poesia, Guccini non è un poeta:  è un, forse "il" narratore, tanto più che la sua inesauribile vena ha trovato ampio respiro in veri e propri romanzi. 
Casa che non è solo un luogo come gli altri, presso Pàvana, sull'Appennino Tosco-Emiliano, ma al tempo stesso un mondo, un teatro di vicende che poi troveranno spazio nel libro “Croniche Epafaniche”. 
“La locomotiva”, tributo alla canzone popolare, nello stile imparato da Dylan & dintorni,  racconta una storia vera: il 20 luglio 1893, alla stazione di Poggio Renatico, il ventottenne fuochista bolognese Pietro Rigosi, approfittando dell'assenza del macchinista, sgancia la locomotiva del treno diretto a Bologna dal resto del convoglio e percorre con essa un tratto della linea a velocità folle, finendo poi con lo schiantarsi contro una vettura in sosta; il buon Pietro si salva, nonostante l’amputazione di una gamba, ed il fatto ottiene grande risonanza sulla stampa nazionale, dato anche quel triplice urlo in sintonia coi tempi: “trionfi la giustizia proletaria!”. L’epica della protesta politica, ma anche del coraggio non fine a se stesso, ma per una causa. Ad avercene…….

Ma le radici esistono anche in città, nella città dove si è cresciuti, specie se è una “Piccola Città” come Modena, “bastardo posto” e “nemica strana”, ma anche magico scenario dell'adolescenza, e che adesso appare “già nostra e ora incredibile e fredda”.
Come racconta Guccini stesso, “Piccola città”  “è il mio secondo romanzo, Vacca di un cane, riassunto in una canzone (…) è la mia nemica strana, la mia adolescenza, il periodo forse più tragico della mia vita perchè nell’immediato dopoguerra le aspettative e le speranze erano tante e le possibilità di realizzarle quasi nulle”. 
Ad arricchire musicalmente il disco, arriva la suggestione di “Incontro”, una sceneggiatura incisiva, quasi cinematografica, una meditazione sugli intrecci della vita raccontata al limitare della linea d’ombra dell’età che avanza, quando si comincia a sentirsi più vecchi e malinconici. Una delle canzoni più intimiste di Guccini, dove il triste incontro con un'amica, che narra le vicende tragiche di dieci anni di vita vissuta, si svolge in un'atmosfera che un verso come “stoviglie color nostalgia” basta da solo a raccontarci completamente. 
Spesso in Guccini c’è un tema: quello dei ritmi “dell’uomo e delle stagioni”: lo ritroviamo anche in quel gioiellino che è la “Canzone Dei Dodici Mesi”, ricca di riferimenti a poeti che in vario modo hanno celebrato le stagioni, e ricca soprattutto di immagini che solo chi cerca di vivere ancora legato ai cicli della natura può riuscire a creare. E lui è senz'altro uno di questi: anche un saggio culturale, ricco di citazioni varie e nascoste, dalla poesia del Duecento a TS Eliot, da John Donne a Cecco Angiolieri.
Poi, scusate, ma cantare "Giugno, che sei maturità dell'anno, di te ringrazio Dio: in un tuo giorno, sotto al sole caldo, ci sono nato io, ci sono nato io..." è una soddisfazione in più......
Al centro della toccante “Canzone della bambina portoghese” c'è invece lo smarrimento, il non sapere che “la vera ambiguità è la vita che viviamo, il qualcosa che chiamiamo esser uomini...”; la perdita, sia pure momentanea, dei propri riferimenti, complice l'immensità dell'Atlantico. Una metafora della generazione che esce dal '68, che sa quello che ha lasciato ma non sa a cosa va incontro. Così la bambina portoghese che sulla spiaggia guarda l'Oceano che le sta di fronte, e non immagina cosa vi potrebbe trovare al di là. Bellissima la variazione musicale che cambia ritmo al brano.

Radici sono, nell’opera, anche i “miti del passato” a cui si abbandona un vecchio nel descrivere ad un bambino com'era ai suoi tempi la pianura che i due osservano: coperta di grano, con frutti, colori, alberi verdi, con “il ritmo dell'uomo e delle stagioni” non ancora cancellato dallo “sviluppo”: è “Il vecchio e il bambino”, nata in realtà come canzone contro l'olocausto nucleare, ma in sostanza un racconto che mantiene al centro la straziante nostalgia per un mondo perduto, che il vecchio ricorda piangendo.
E, in tutta sincerità, per quanto mi riguarda, un po’ anch’io con lui.

Auguri, quindi, Professor Francesco: anche se  notoriamente nella tua (nostra?)isola non trovata tu sei riservato e un po’ orso, i critici musicali, anche se non più “militanti severi”, sono impegnati ad avvistare meteore, facendole passare per stelle luminose, e non a parlare di cari, vecchi, solidi e consolidati pianeti viventi, e noi “seguaci” non teniamo conto del calendario. E neppure dell'anagrafe, se contiamo le emozioni in profondità. 

PS: da domani un noto gruppo editoriale diffonderà nelle edicole nove album (cominciando proprio da “Radici”: sarei curioso di sapere quali sono i sei esclusi, e con quale criterio) ed il dvd di “Anfiteatro Live”. Quale migliore occasione per….?