30.8.07

Rotola, rotola...





Cronaca. L’autopsia sulla mummia di Similaun ha accertato che l’uomo è morto durante un concerto dei Rolling Stones” (Daniele Luttazzi)
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Come raccontare cosa sono stati i Rolling Stones? Quelli veri, non quei sessantenni un po’ incartapecoriti che vanno in giro da vent’anni in qua a raccogliere fondi per se stessi, senza più un’invenzione musicale né uno straccio di cose da dire?
Eppure non si può far finta di nulla, non si può non riconoscere che siano stati protagonisti e registi della trasformazione della morale e dei costumi di una intera generazione; gli studiosi di sociologia ne parlano come di capobanda di una cospirazione internazionale di «sballati» rock and roll, destinata ad insidiare la civiltà occidentale con droga, musica, sesso libero, satanismo e violenza. Sulla stampa sono innumerevoli le accuse di ogni genere: persino un giornale anni luce lontano dalla musica giovanile, l’ “Osservatore Romano”, ha parlato di loro, indicandoli come “lo strumento di Satana per rapire l’anima dei giovani”.
Fatte le debite eccezioni, non si può non pensare che una vicenda leggendaria come la loro presupponga, in un certo senso, la complicità. Per usar le parole di Mick Jagger, il «pifferaio magico» della rivoluzione: «Tutte le storie che si sono raccontate sul mio potere carismatico, su Jagger il perversore... ci siamo trovati in tanti sulle stesse posizioni, non è forse stato così?».
Gli Stones sono stati i primi a creare un certo «modo di vita giovanile» radicalmente nuovo, prendendo gli elementi repressi dalla società ed esprimendone la confusione e la frustrazione in maniera bizzarra. Le loro canzoni, le loro «recite» sulla scena sono finalizzate al progetto di una nuova società nella società.
I Beatles sono stati gli iniziatori di tutto ciò, e gli Stones sono da considerare il catalizzatore e l’amplificatore del discorso, conducendolo alla sua logica conclusione; e se, da un lato, il loro effetto è stato meno universale di quello dei Beatles, ai quali sono stati da sempre contrapposti in quelle guerre di religione che servono, in realtà, solo ad autocastrarsi sulla via della conoscenza –in realtà erano amicissimi- , d’altro canto si deve loro riconoscere una maggior insidiosità, se è vero che per la collettività è più difficile assorbire certe posizioni antisociali. Gli Stones si sono sempre compiaciuti del ruolo di «fuorilegge» loro assegnato, anche quando ciò ha significato il bando delle canzoni, la censura di certe copertine (quella di “Beggar’s Banquet”, ad esempio, con i celebri graffiti sul cesso), addirittura l’intervento dei tribunali. Chi ha visto il film “Ufficiale e gentiluomo” (ma qualcuno NON l’ha visto?) ricorda che il rigido istruttore apostrofa i cadetti con l’accusa infamante, tra le altre su omosessualità e smidollaggine, di aver passato la vita “ad ascoltare musica dei Rolling”: un marchio di infamia, appunto.
Ed «effetti collaterali» di segno opposto rispetto alle intenzioni: quando nelle scuole inglesi fu sancita l’espulsione degli studenti che avessero introdotto nelle scuole “dischi, canzoni, abbigliamento o taglio di capelli dei Rolling, o ad essi riconducibili” il risultato fu quello di diffonderne ancor più facilmente idee, canzoni, usi e costumi tra la popolazione studentesca.
Quell’arroganza da «sbandati», più volte sfoggiata, li aveva resi gli aristocratici della nuova morale. «Non siamo gente vecchia » affermò sdegnosamente Keith Richard davanti alla Corte, quando gli fu domandato se c’era davvero una ragazza nuda al «festino con droga» per il quale era stato convocato in giudizio «e non abbiamo nulla a che fare con la vostra gretta morale illegittima.» Un discorso così, nel 1967…per capire tempi e costumi, sullo stesso quotidiano si trovava la notizia, in Italia, di un tale Pasquale Loconte condannato a due anni di reclusione per aver bestemmiato sul tram a Milano.
«Combattenti di strada» per una nuova sensibilità, gli Stones si sono da subito staccati con la loro «cultura non ufficiale» dalle convenzioni, dalla morale tradizionale, liberando il drago nascosto della sessualità latente nel rock and blues. Quando i gruppi britannici scoprirono bluesmen come Howlin’ Wolf e Muddy Waters, per ragioni sociali ed emotive trovarono facile identificarsi completamente con loro, rendendo esplicito ciò che nella musica nera era solo sottinteso. Non oppressi a livello sociale e razziale come invece accadeva ai musicisti di colore, i proletari inglesi seppero prendere gli elementi di violenza e di sesso di quegli stili, usandoli sino a farli diventare una forza socialmente efficace. Il R & B era sempre stato considerato eretico presso l’ambiente musicale inglese, che aveva favorito il jazz, specie quello tradizionale, e proprio quell’atteggiamento bigotto diede lo spunto agli Stones per riunirsi per la prima esibizione ufficiale, al Marquee Club, nei primi mesi del 1963.
Il complesso, che ancora non portava la celebre insegna e tra i componenti non annoverava Charlie Watts, esisteva dall’estate del 1962. Mick, Keith e Brian Jones costituivano il nucleo originario, formatosi alla fine del 1961. Brian, nella sua veste di unico «professionista» dei tre (aveva suonato con qualche gruppo) divenne il primo capo del complesso. Keith era un amante del rock nella sua accezione più dura, oltre che un grafico di talento. Mick, che veniva dalla stessa cittadina, Dartford, luogo celebre per una rivolta contadina del 1306, alternava seri studi alla London School of Economics ad esibizioni vocali con la Blues Incorporated di Alexis Korner, il pioniere dei musicisti r & b d’Oltremanica. Charlie e Bill Wyman, che fornivano la scatenata sezione ritmica, avevano cominciato con il jazz ma dopo aver conosciuto Alexis Korner si erano anch’essi appassionati al R & B. Nel febbraio del 1963, gli Stones cominciano ad uscire allo scoperto, diventando il complesso permanente del Crawdaddy Club, il celebre locale presso lo Station Hotel di Richmond, e creando il primo seguito di fanatici ammiratori. In maggio i cinque incisero all’Olympic i primi due singoli: “Come On”, pubblicato in giugno, e “I Wanna Be Your Man”, una canzone dei Beatles, appunto, entrambi su etichetta Decca. In autunno, il complesso si esibisce nella prima tournée inglese. con Bo Diddley e gli Everly Brothers.
Con i primi mesi dei 1964, il gruppo entra nelle classifiche inglesi con il singolo (che sul retro porta la prima delle tante, incredibili canzoni d’atmosfera del gruppo, “Stoned”), con “Not Fade Away/Little By Little” e con un extended play contenente “Poison Ivy”, “Bye Bye Johnny”, “Money” e “Not Fade Away”. Con l’aiuto del loro manager, Andrew Oldham, personaggio importantissimo ai fini della loro vicenda, re dello sfruttamento pubblicitario del nuovo fenomeno, i cinque si fanno conoscere come “il gruppo che i genitori amano odiare”. La Federazione Nazionale degli Acconciatori del Regno Unito si offre di tagliar loro le chiome, la polizia usa cani lupo ai loro concerti, mentre le ragazze si lanciano dalle balaustre e le bottiglie toccate da Mick vengono venerate come oggetti sacri. Un giro su eBay dimostra, ancora oggi, a che punto arrivi la febbre dei collezionisti.
Per un po’, gli Stones rimangono un gruppo “di nicchia”, adorato e spinto da una sparuta pattuglia di fanatici ammiratori; poi, nell’estate del 1965, si affermano quasi di colpo con “Satisfaction”, la più classica delle canzoni rock. Introdotto da un minaccioso «giro» di chitarra distorta di Keith Richard e cantato con insinuante, calcolata lentezza da Jagger, il suono «a combustione lenta» del brano riassume con linguaggio emotivo le frustrazioni degli anni ‘60. Satisfaction è una ironica, amara miscela di blues, R & B e rock, costruita secondo la formula a cui gli Stones lavoravano sin dal 1962. La fiera sintesi avrebbe brillato poi come pietra di paragone nel repertorio del gruppo. Durante lo stesso anno uscì “Out of Our Heads”, album registrato ai leggendari Chess Studios di Chicago. Quel fremente stile R & B «bianco» costituì il culmine della prima parte della carriera degli Stones. Nessun complesso bianco aveva mai saputo interpretare meglio quella musica. Benché altri cantanti inglesi di blues, come Eric Burdon o Stevie Winwood, potessero vantare voci più vicine a quelle dei modelli di colore, lo stile nasale di Jagger era più emotivo; Mick non si limitava alla semplice ricopiatura ma sapeva conferire alla musica un tocco personale, originale. Il tutto accompagnato da esibizioni live memorabili, con Mick ora sguaiato ed ora pio, ora macho duro e puro ora puttanella, il tutto condito da mosse feline e smaccatamente erotiche.
Nei primi album l’ossessione R & B degli Stones crea qualche problema in sede compositiva; per anni, Jagger e Richard si sono limitati per lo più a strane reinvenzioni di blues e soul, scrivendo canzoni come “Little By Little”, “Heart Of Stone” e “The Last Time”.
Solo con “Aftermath”, quarto album pubblicato negli Stati Uniti (contemporaneamente a “Revolution” dei Beatles, e non a caso), gli Stones possono presentare al pubblico un LP interamente composto da brani originali. Nelle prime composizioni, i testi erano semplici e ripetitivi, la musica volutamente non originale, ma con questo album ed il successivo “Between The Buttoms” gli Stones entrano nella stagione di più accesa fantasia. Accanto a canzoni che lacerano a sangue il cuore delle loro fans, una per tutte “As tears go by”, che Jagger inciderà anche in italiano col titolo “Con le mie lacrime”, arrivano inni immortali e nichilisti (“Paint it black”, “Have you seen your mother”), esaltazioni di compagnie più allucinogene che allucinanti (“Lady Jane”). Sposando l’ambiguità verbale di Dylan e la tematica sociale dei Kinks, le canzoni assumono toni surreali, illustrando una bizzarra galleria di personaggi: puttane nevrotiche, alienati suburbani, diseredati dei quartieri bassi. Così facendo, il complesso rivela una certa propensione ad esaminare precisamente i rapporti più confusi, le turbe emozionali, plasmando in forma artistica arroganza ed egocentrismo. “Under My Thumb”, ad esempio, è canzone così depravata che si giustifica per il proprio stesso scandalo.
Sul finire deI 1966, Mick e Marianne Faithfull incarnano la «nuova coppia» ideale, ovviamente salgono alla ribalta scandalizzando i benpensanti rivelando, ad esempio, un uso molto intimo delle barrette di cioccolato, mentre gli Stones sostituiscono rapidamente i Beatles come modelli della nuova generazione, tanto che Mick è costretto, in una famosa intervista alla Tv inglese, ad avvertire i fiduciosi seguaci: «Le linee attorno ai miei occhi sono protette dal copyright». D’altro canto, il complesso comincia a diventare un bersaglio. Gli Stones sono una miccia accesa, un modello di vita radicalmente nuovo e che fa paura. Un mese dopo la stampa di “Let’s Spend The Night Together”, nel gennaio del 1966, Keith e Mick sono arrestati per possesso di droga, benché mancasse la pur minima prova a loro carico, e a giugno vengono condannati rispettivamente a un anno e a tre mesi di carcere. La stampa però, ed in particolare il “Times”, li difende a spada tratta e al principio dell’estate i due vengono rilasciati. Invece di abbassare il capo e fare atto di contrizione e pentimento, pubblicano la sarcastica “We Love You”, che inizia con il suono di una porta di prigione che sbatte, e a dicembre mettono in circolazione il futuristico album “Their Satanic Majesties”, pieno di droga sino al midollo. L’album, uno degli ultimi dell’età psichedelica, è considerato da molti il più prestigioso e barocco dei loro sforzi.
Contemporaneamente agli altri nomi della Santissima Trinità della controcultura giovanile, come si diceva all’epoca, cioè Dylan e Beatles, gli Stones sospendono le esibizioni tra il 1966 e il 1969. Periodo più che buio; per Brian, in particolare, sono mesi fatali. Già minato dalla tensione del continuo girovagare, l’uomo si lascia scivolare lentamente verso la morte. Entra più volte in ospedale per una forma di esaurimento nervoso; dopo un primo arresto per possesso di droga, nell’ottobre del 1967, la polizia comincia a perseguitarlo impietosamente, «come un cane che sente odor di sangue », per usare le parole di Keith. Tanta violenza e brutalità trasformano ben presto il ragazzone gallese di un tempo in uno «spettro iridescente» -sempre parole di Keith-, reso visibile dalle droghe che lo sostengono. Quando gli Stones decidono di riprendere i concerti, nel 1969, Brian non è neppure in grado di muoversi. Il 9 giugno abbandona ufficialmente il gruppo, sostituito da Mick Taylor, già chitarrista dei Bluesbreakers di John Mayall. Neanche un mese dopo viene rinvenuto il suo cadavere. Ufficialmente è morto per annegamento, nella piscina della sua villa.
Con Brian se ne va una parte degli Stones e si perde una dimensione dello stile del gruppo, la complessità e la diversità di Brian — il suo sitar demoniaco in “Paint It Black”, il dulcimer in “Lady Jane”, il flauto in “Ruby Tuesday” — avevano conferito inflessioni strane allo stile elementare del complesso, creando tensione dialettica. Così Jagger, l’unico altro «interprete» del complesso, si trova incontrastato padrone, minando, con il proprio potere, la forza collettiva del gruppo. Lo stesso fatto che il logo ufficiale del gruppo diventi la bocca stilizzata di Mick, una delle dieci icone più famose a livello planetario nel fatidico 1970, la dice lunga.
Dopo “Satanic Majesties”, grazie a un disco non meno «artificiale», gli Stones riguadagnano i favori del pubblico, con le evoluzioni acustiche di “Beggar’s Banquet”; i mitici «prodotti di casa Jagger» conoscono nuova vita, ora ricchi d’ironia e di particolari eccitanti. Nel Banchetto fantastico, l’apparizione più straordinaria è quella di Lucifero in persona, in “Sympathy For The Devil”, un canto di vittoria per le forze del male. Con “Jumpin’ Jack Flash”, storia fantastica della loro vicenda come artisti blues, gli Stones ridefiniscono il proprio mondo interiore, in continua espansione; nel brano viene spremuto il succo dei vecchi amori musicali, Chuck Berry, Bo Diddley, Howlin’ Wolf. “Beggar's Banquet” inaugura la stagione più felice del gruppo, dal 1968 al 1972 le pietre rotolanti creano le radici di qualsiasi ramo del rock moderno. Già detto delle canzoni di Beggars, su “Let it Bleed” troviamo la riuscitissima psichedelia rock di "Gimme Shelter" (seconda nel genere solo a "Paint it Black") e soprattutto "You can't always get what you want", la ballata-rock per eccellenza, lo stampo perfetto per altre centomila canzoni che mai riusciranno ad eguagliarne la bellezza.
Del 1971 è “Sticky Fingers”, altra perfetta raccolta di capolavori. "Brown Sugar" è Rolling-sound allo stato puro, "Wild Horses" una ballata storica, "Dead Flowers" un misconosciuto gioiellino su cui ha fatto radici tutto il british-rock anni 80.
Per gli Stones, l’America è sempre stato un Paese esotico e violento, fantasticato con le potenti immagini del R & B. Ma nel 1969, dopo Charlie Manson e l’omicidio che macchia il loro concerto di Altamont, le agghiaccianti visioni raccolte in “Let It Bleed”, quelle di “Midnight Rambier” e “Gimme Shelter” diventano pericolosamente reali. Ed altre, durissime polemiche all’uscita di “Goat’s head soup”, la zuppa di testa di capra, altro simbolo demoniaco. E’ il 1972, a nulla serve la dolcezza di “Angie” quando alcune sette sataniche, al momento dell’arresto, stanno appunto degustando tale pietanza. Quest’album ed il successivo “It's Only Rock and Roll” appaiono una fotocopia, pur se leggermente sbiadita, di quanto era stato fatto nel quinquennio d'oro; ma la forza trainante degli Stones è l’equilibrio delle diverse forze, che crea l’impatto emotivo della loro musica. Il gioco degli acuti chitarristici di Keith Richard, striduli come la voce dell’elettricità, si bilancia come una lama incandescente sull’implacabile, solida sezione ritmica di Charlie Watts e Bill Wyman; Mick Jagger, dal canto suo, muove in avanscoperta con la voce dalle molte allusioni sessuali. Tanta grazia permette al gruppo di riannodare senza fatica i fili con le proprie origini, senza ricorrere alla nostalgia. Così, semplicemente, con assoluta naturalezza, può valere il fondamentale assunto: “È solo rock and roll ma è proprio ciò che voglio”.
Mick Taylor non regge il ritmo di vita e lascia il posto a Ron Wood, meno bravo ma più in linea con l'immagine del gruppo. L'importanza dei Rolling Stones non è comunque esaurita: “Black and Blue” è una rivoluzionaria miscela di rock, funky, jazz e ritmi latini, ma viene sarcasticamente inserito da Billboard nelle classifiche della discomusic, insieme a Barry White & co.. Risultati non particolarmente esaltanti, accuse di “imborghesimento” , ma ancora una volta battistrada a una nuova ondata di ritmi e sonorità fino ad allora sconosciute al grande pubblico, come il reggae di Bob Marley e Peter Tosh (che si faceva produrre proprio da Mick Jagger). Con “Some Girls” si ritorna al buon vecchio rock di sempre, mentre “Emotional Rescue” raschia senza successo il fondo del bidone di una ispirazione di nuovo arenata. L'ultimo fuoco sarà “Tattoo You”, buono ma non eccezionale.
Seguono anni di appagamento musicale, un seguire le mode, anziché imporle. Il resto della storia è pura routine, con lavori scialbi come “Undercover” o “Steel Wheels” ed episodi divertenti ma inutili come “Dirty Work”. L'ultimo capitolo è del 1994, ma anche “Voodoo Lunge” non è altro che un riuscito esercizio di stile.
Per definire cosa siano stati musicalmente “quei” Rolling Stones è sufficiente citare quello che scrive Lanny Kaye nella sua “Storia del rock”:
Il potere dei geroglifici sonori degli Stones, dei loro ipnotici atteggiamenti — le pose sataniche, l’edonismo pansessuale, la droga assurta a feticcio, la delinquenza come prassi politica — deriva dal fatto che tutto ciò è materia distillata dalle menti dei principi delle tenebre rock; sono mostri mentali vivi da sempre, svegliati dai sotterranei più fondi della geologia sonora. Le canzoni hanno tanto rilievo reale perché gli Stones, fuor d’ogni causa ed effetto, riescono ad incarnarle sino in fondo, creando così il più evidente e convincente teatro musicale del sesso. Nella commedia, Mick è uno scandaloso ventriloquo da music hall, capace di ogni volto; alla sua interpretazione, la micidiale chitarra di Keith Richard conferisce potere ed intensità. Così Jagger riesce a dar vita corporea alle creature della sua fantasia, mostri dai mille lustrini, pavoneggiandosi, regalandosi agli altri con furia narcisistica, come se le febbri dell’elettricità lo spingono a specchiarsi in ogni volto del pubblico. E noi, in comunione assoluta con l’uomo, scopriamo per il tramite degli Stones le nostre recondite potenzialità.”

Certo, vederli oggi, caricature di se stessi, sarebbe difficile crederlo: ma è il destino dei miti sopravvissuti nonostante tutto e, soprattutto, a se stessi.

8.8.07

33 1/3



“L'uccello lotta per uscire dall'uovo. L'uovo è il mondo. Chi vuole nascere deve distruggere un mondo. L'uccello vola a Dio. Il Dio si chiama Abraxas.”
(Herman Hesse – “Damien”)

Sabato pomeriggio di spesa, solita iper, si spera meno affollata del solito. Già che ci siamo, un’occhiata in cerca di cd vergini al miglior prezzo possibile, avendo passato le ferie a casa, trovando finalmente il tempo per passare su pc un po’ di quelle cassette che ormai si possono ascoltare solo agli arresti domiciliari e se la piastra, come si chiamava in hifistereofonese, non tradisce.
Buttando l’occhio alle offerte, un tuffo nel cestone, dove, secondo la filosofia dei Peanuts “capisci di stare invecchiando” se “ci trovi la tua musica preferita”.Chissà, magari salta fuori qualcosa di buono, davvero.
Eccolo.
Il secondo album di Carlos Santana e della band che da lui prese il nome.
Abraxas.
Quanto ti piace. Quante volte ti ha accompagnato negli anni, quel padellone in vinile mai abbastanza amato.
Inevitabile, ricomprarlo su cd. Un reato di lesa maestà, non farlo.
O di omissione di soccorso verso un’anima che reclama calore musicale.
Per motivi anagrafici, l’hai conosciuto più tardi, rispetto a quel 1970 in cui è uscito, un anno dopo che il giovane chitarrista ha mandato in visibilio il pubblico di Woodstock con una esibizione sufficiente a farlo entrare nella storia. “Rock latino”, fu definito: comoda etichetta per entrare in una strada asfaltata di profondo misticismo, blues, jazz, ritmi calienti sudamericani, trascinanti percussioni dal denso sapore tribale, una fusione di stili e ritmi verso i quali potevi solo arrenderti e lasciarti andare.Già dalla copertina, con una Venere Nera che stringe tra le cosce una colomba bianca, trionfante in un cromatismo violento e delicato, colori di una diapositiva saturata all’inverosimile.Gregg Rolie, tastiere e (che) voce principale, David Brown al basso, Michael Shrieve alla batteria, Mike Carabello e Josè Areas alle varie percussioni: e lui, Carlos Santana che imperversa con la sua chitarra ammiccante come una proposta, libera come un grido, suadente come un piacere, avvolgente come un amplesso, travolgente come un orgasmo.Santana, quindi: che, a differenza di altri grandi chitarristi del rock (e dell’epoca), non domina solitario la scena, non punta su di sé il riflettore del despota di ogni discorso musicale, ma si fonde con il tessuto ritmico fornito dalle percussioni e dialoga in assoluta parità con basso, batteria e tastiere.E non è un caso che la firma dei brani di questo disco, quando non si tratti di cover, sia per lo più degli altri membri della band.
Abraxas, nella versione originale, contiene 9 brani in 37 fulminanti minuti di una delle più geniali ramificazioni del rock.“Singing winds, crying beasts” di Mike Carabello, è come camminare a piedi nudi sul marmo sempre più scaldato dal sole, accompagnati dal crescente e virtuoso suono delle congas; “Black magic woman/Gypsy queen”, rielaborazione di due motivi per un solo, fantastico impasto di blues e dintorni, preparato in separate sedi dai Fleetwood Mac e Gabor Szabo, che ti scuote come una raffica di vento prima di un temporale; “Oye como va” di Tito Puente, uno dei “mambo kings” che hanno dominato sul regno degli anni 50, e che ti agita involontariamente i piedi; “Incident at Neshabur”, cinque minuti di pura poesia della mescolanza, dove i suoni non ti arrivano addosso, ma ti compenetrano.
Ed il temporale arriva, poi, sui ritmi indemoniati di “Se a cabo”, del rock quasi duro di “Mother’s Daughter” (scritta da Gregg Rolie), con la migliore sezione vocale del disco, trascinante e grintosa nell’intrecciarsi di chitarra e basso; ad asciugare e riscaldare, dopo la tempesta, arriva "Samba Pa Ti" (l’unica firmata da Santana), costituita praticamente da un assolo di chitarra, morbido ed evocativo; una specie di fiaba narrata da una voce rassicurante, una voce solista, molto umana pur non essendo umana, che ha fatto innamorare tutta una generazione. Una corda (non) vocale che impone di fare silenzio. E, come accadeva (agli altri…) nelle feste dell’epoca, in quel silenzio ci stava di tutto (alla fantasia, alla libera interpretazioni, o ai ricordi, è affidata la spiegazione di questo “tutto”).
Poi, “Hope You’re Feeling Better”, sempre firmata Rolie: esplosiva miscela della chitarra di Santana con la tastiera e la voce di Rolie stesso: un brano possente senza eccessi, con un inizio strepitoso e una parte chitarristica di riferimento assoluto. Come mettere la testa sotto un phon virulento e potente, di cui non trovi l’interruttore.
Chiude “El Nicoya”: un sentimento invadente che conclude idealmente il racconto, una corrispondenza di amorosi ritmi e voci in un frammento che spicca il volo verso l’eternità.
Verso quel dio che si chiama Abraxas.