8.8.07

33 1/3



“L'uccello lotta per uscire dall'uovo. L'uovo è il mondo. Chi vuole nascere deve distruggere un mondo. L'uccello vola a Dio. Il Dio si chiama Abraxas.”
(Herman Hesse – “Damien”)

Sabato pomeriggio di spesa, solita iper, si spera meno affollata del solito. Già che ci siamo, un’occhiata in cerca di cd vergini al miglior prezzo possibile, avendo passato le ferie a casa, trovando finalmente il tempo per passare su pc un po’ di quelle cassette che ormai si possono ascoltare solo agli arresti domiciliari e se la piastra, come si chiamava in hifistereofonese, non tradisce.
Buttando l’occhio alle offerte, un tuffo nel cestone, dove, secondo la filosofia dei Peanuts “capisci di stare invecchiando” se “ci trovi la tua musica preferita”.Chissà, magari salta fuori qualcosa di buono, davvero.
Eccolo.
Il secondo album di Carlos Santana e della band che da lui prese il nome.
Abraxas.
Quanto ti piace. Quante volte ti ha accompagnato negli anni, quel padellone in vinile mai abbastanza amato.
Inevitabile, ricomprarlo su cd. Un reato di lesa maestà, non farlo.
O di omissione di soccorso verso un’anima che reclama calore musicale.
Per motivi anagrafici, l’hai conosciuto più tardi, rispetto a quel 1970 in cui è uscito, un anno dopo che il giovane chitarrista ha mandato in visibilio il pubblico di Woodstock con una esibizione sufficiente a farlo entrare nella storia. “Rock latino”, fu definito: comoda etichetta per entrare in una strada asfaltata di profondo misticismo, blues, jazz, ritmi calienti sudamericani, trascinanti percussioni dal denso sapore tribale, una fusione di stili e ritmi verso i quali potevi solo arrenderti e lasciarti andare.Già dalla copertina, con una Venere Nera che stringe tra le cosce una colomba bianca, trionfante in un cromatismo violento e delicato, colori di una diapositiva saturata all’inverosimile.Gregg Rolie, tastiere e (che) voce principale, David Brown al basso, Michael Shrieve alla batteria, Mike Carabello e Josè Areas alle varie percussioni: e lui, Carlos Santana che imperversa con la sua chitarra ammiccante come una proposta, libera come un grido, suadente come un piacere, avvolgente come un amplesso, travolgente come un orgasmo.Santana, quindi: che, a differenza di altri grandi chitarristi del rock (e dell’epoca), non domina solitario la scena, non punta su di sé il riflettore del despota di ogni discorso musicale, ma si fonde con il tessuto ritmico fornito dalle percussioni e dialoga in assoluta parità con basso, batteria e tastiere.E non è un caso che la firma dei brani di questo disco, quando non si tratti di cover, sia per lo più degli altri membri della band.
Abraxas, nella versione originale, contiene 9 brani in 37 fulminanti minuti di una delle più geniali ramificazioni del rock.“Singing winds, crying beasts” di Mike Carabello, è come camminare a piedi nudi sul marmo sempre più scaldato dal sole, accompagnati dal crescente e virtuoso suono delle congas; “Black magic woman/Gypsy queen”, rielaborazione di due motivi per un solo, fantastico impasto di blues e dintorni, preparato in separate sedi dai Fleetwood Mac e Gabor Szabo, che ti scuote come una raffica di vento prima di un temporale; “Oye como va” di Tito Puente, uno dei “mambo kings” che hanno dominato sul regno degli anni 50, e che ti agita involontariamente i piedi; “Incident at Neshabur”, cinque minuti di pura poesia della mescolanza, dove i suoni non ti arrivano addosso, ma ti compenetrano.
Ed il temporale arriva, poi, sui ritmi indemoniati di “Se a cabo”, del rock quasi duro di “Mother’s Daughter” (scritta da Gregg Rolie), con la migliore sezione vocale del disco, trascinante e grintosa nell’intrecciarsi di chitarra e basso; ad asciugare e riscaldare, dopo la tempesta, arriva "Samba Pa Ti" (l’unica firmata da Santana), costituita praticamente da un assolo di chitarra, morbido ed evocativo; una specie di fiaba narrata da una voce rassicurante, una voce solista, molto umana pur non essendo umana, che ha fatto innamorare tutta una generazione. Una corda (non) vocale che impone di fare silenzio. E, come accadeva (agli altri…) nelle feste dell’epoca, in quel silenzio ci stava di tutto (alla fantasia, alla libera interpretazioni, o ai ricordi, è affidata la spiegazione di questo “tutto”).
Poi, “Hope You’re Feeling Better”, sempre firmata Rolie: esplosiva miscela della chitarra di Santana con la tastiera e la voce di Rolie stesso: un brano possente senza eccessi, con un inizio strepitoso e una parte chitarristica di riferimento assoluto. Come mettere la testa sotto un phon virulento e potente, di cui non trovi l’interruttore.
Chiude “El Nicoya”: un sentimento invadente che conclude idealmente il racconto, una corrispondenza di amorosi ritmi e voci in un frammento che spicca il volo verso l’eternità.
Verso quel dio che si chiama Abraxas.

2 commenti:

  1. ...la musica sa custodire tra le sue note ricordi indelebili...

    un sorriso

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  2. scendelasera011/8/07 23:39

    Eccomi, UN SALUTO E UN BACIO

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