28.1.11

L’ultimo confine è la censura sui libri - Maurizio Maggiani

ALLA FINE della Seconda Guerra gli Alleati vittoriosi nel dare mano alle grandi retate di criminali e collaborazionisti delle sconfitte dittature, non si dimenticarono degli intellettuali, e con loro, fatti salvi quelli che servivano per scopi strategici - scienziati, crittografi, storici, utili al nuovo quadro politico - con gli altri furono piuttosto duri, persino durissimi.
Ezra Pound, probabilmente il più grande poeta del ‘900, fu accusato, giustamente, per tradimento del suo paese, gli Usa, di collaborazionismo attivo e pervicace con il fascismo, e condannato a passare il resto dei suoi giorni in un manicomio criminale. Solo la mobilitazione di molti importanti intellettuali, primo tra tutti il ben noto filocomunista Ernest Hemingway, riuscì a fargli pubblicare le opere e trascorrere la parte ultima della sua vita in pace, là dove voleva vivere, nell’Italia dei suoi Cantos. Il più geniale e innovativo degli scrittori del ‘900, Ferdinand Celine, antisemita conclamato e filonazista, fu incarcerato, condannato alla morte civile, e non ebbe mai la possibilità di una vita decente, in perenne miseria e trattato come un reietto dai suoi connazionali e compaesani, e se riuscì a pubblicare i suoi capolavori fu solo in virtù dell’editore progressista per antonomasia, Gallimard.
C’è un episodio bello e commovente riguardo al grande musicista tedesco Richard Strauss. Accusato di aver sostenuto il regime nazista –accusa per altro assai controversa - fu messo al bando dalle autorità di occupazione e gli fu proibita qualunque forma di presenza pubblica. A lui, non alla sua musica; e quando il Metropolitan di New York mise in scena forse la sua più bella opera, il Rosen Cavalier, il vecchio musicista, ormai ai suoi ultimi giorni, volle andarla a vedere. Fece un lungo e faticoso viaggio, e quando giunse al teatro non trovò che un posto nelle ultime file, dove si accomodò in grande timidezza. Ma fu notato da una signora, una nota esponente dell’intellettualità ebraica e progressista della città che lo prese per mano e lo portò nella prima fila, dove lo fece accomodare al posto del marito tra gli applausi del pubblico, per il musicista e per la signora. C’è un tabù religiosamente coltivato nel cuore più intimo e infrangibile delle democrazie, che non è detto sia rispettato in ogni occasione anche dai loro governi, ma coltivato universalmente dai loro cittadini, dalle pubbliche opinioni, in particolare nelle loro parti più attente, tra gli intellettuali per così dire, e concerne la libertà di pensiero e di espressione del pensiero, la circolazione libera delle idee e delle opere, la distinzione tra l’opera e il suo autore. A tal proposito, ad uso preventivo, c’è l’antico detto che recita: l’opera è sempre migliore del suo autore. Questo tabù, come dicevo, è universalmente condiviso, e anche se siamo abituati ad osservare nell’opinione progressista la più accesa militanza in sua difesa, anche la destra democratica ne è partecipe. Riporto la prima citazione che mi viene in mente, e riguarda il presidente francese, incorreggibilmente di destra, sempre più di destra a detta dei suoi concittadini, che a proposito dei suoi gusti letterari, così ha risposto recentemente a un intervistatore: «Non tutti quelli che, come me, leggono Céline sono antisemiti, così come non sempre chi legge Proust è omosessuale». Il presidente ha, per inciso, ascendenti materni ebraici. Dico questo perché il mio Paese è l’unico Paese del mondo civile e democratico dove può accadere che un soggetto, più soggetti, di pubblica rilevanza abbiano osato infrangere questo tabù, quando, nei giorni scorsi, più amministratori veneti hanno proclamato l’ostracismo nelle biblioteche di loro competenza ad autori che hanno palesato, nell’ambito dell’esercizio del loro pensiero, posizioni politiche ed etiche sgradite. Voglio sperare che i lettori, soverchiati da altre inaudite, e inaudibili, vicende di impudicizia, ricordino l’episodio in questione. Voglio sperare che ci riflettano su con calma. Perché se sulle altre e più appariscenti vicende, condivido la pacata e di ottimo gusto opinione del noto stilista Armani («Sono colto da un lieve senso di disgusto»), su questa storia di greve periferia non sono capace personalmente di moderazione. C’è un bellissimo monumento a Berlino che ricorda a chi ne avesse bisogno il regime nazista. Da un grande vetro si vede la sala di una biblioteca con gli scaffali vuoti. Ed è, secondo me, l’immagine più efficace per raccontare una dittatura. Su questa roba scherzare, passarci sopra, menare il torrone con la faccenda del folklore leghista, è la predisposizione d’animo adatta perché in questo Paese si superi anche l’ultimo dei limiti. E probabilmente è già accaduto, visto che non mi risultano se non parole indignate di questo o quello dei non molti volenterosi, e per il resto, silenzio e sopportazione. A questo punto mi viene da pensare che la supina sopportazione e l’imbelle acquiescenza per lo stato delle cose sia una condizione fisiologica del popolo che parla la mia stessa lingua e paga le tasse al medesimo erario. Così come ci rinfacciano da qualche secolo i politici e gli intellettuali europei. “Inane polvere umana”, scrisse degli italiani La Martine due secoli or sono. Val la pena di ricordare che l’espressione “Risorgimento dell’Italia” trae origine dalla reazione a quella sentenza di quegli uomini che rifiutarono lo stato delle cose?

2 commenti:

  1. Massimo, grazie per aver salvato questo commovente bellissimo scritto. Verrebbe voglia di stamparlo e volantinarlo ovunque, ma sono in fase calante...lo linkerò per ora a qualche amico che so per certo ne apprezzerà il valore alto. Che resti qui, in eterno. O per quanto sia dato alla rete esistere...

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  2. Ross, sarà che sono di parte, ma io apprezzo particolarmente la capacità di affabulazione di Maggiani: qualunque cosa lui scriva, lascia il segno.

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