26.8.13

noi che abbiamo nella testa un maledetto muro

Quelle che propongo oggi non sono parole mie [ho solo assemblato parole di....vabbè, non lo dico subito. La cosa che conta è che esprimono il mio pensiero molto meglio di quanto possa fare io in questo periodo].

FEMMINICIDIO: terribile neologismo, non in sè  -il termine rende sin troppo l'idea- ma per le situazioni che ne hanno portato l'uso nel linguaggio comune.: l’uccisione di una donna in quanto donna, quale che sia l’età o l’estrazione sociale, etnica, religiosa della donna. In un paese che negli ultimi 20 anni ha visto quasi dimezzati gli omicidi, questo reato non decresce, anzi. E la violenza sulle donne, anche quando non arriva all’uccisione, mostra cifre che non possono lasciare indifferenti: soprattutto perché non si tratta di una “emergenza”, ma di una prassi costante. Una peculiare forma di violenza, rivolta non solo, ma anche, e con particolare accanimento, nei confronti delle donne è quella della diffusione di parole d’odio ["hate speech"], con modalità che ricordano quelle del bullismo e dello stalking (a volte sembrano esserne una nefasta sintesi).


Ci sono almeno due concetti che potrebbero essere evitati nelle cronache ormai quotidiane sulla violenza contro le donne.
Il primo è il concetto di “emergenza”. C’è infatti uno strano automatismo nel nostro Paese, secondo il quale se episodi analoghi e gravi si ripetono con una certa frequenza vuol dire che si deve rispondere con una logica emergenziale. Ed invece nel bollettino quotidiano dell’orrore contro mogli, fidanzate o amanti c’è una violenza stratificata e con radici profonde. Più aumentano i casi, più si dovrebbe ragionare in termini di problema strutturale e quindi culturale.
Il secondo concetto è quello di “raptus”, riportato spesso nei titoli dei giornali. Quando però si va a leggere il pezzo si capisce che di improvviso non c’ è stato proprio nulla. Ciò che è stato definito “raptus” era invece un gesto ampiamente annunciato. Penso ad uno degli ultimi casi: Rosaria Aprea, ventenne di Caserta, ridotta in fin di vita da un fidanzato geloso fino all’ossessione. Stordita dall’anestesia, ha avuto la forza di indicare il suo compagno come l’autore di quella violenza. Lo stesso che già due anni fa l’aveva mandata in ospedale, a furia di calci e pugni. Ed è stata forse improvvisa, la morte di Maria Immacolata Rumi qualche settimana fa a Reggio Calabria? È arrivata in ospedale in fin di vita per le percosse subite. Il marito ha raccontato di averla trovata dolorante e “intronata” una volta tornato a casa. Ma gli stessi figli hanno dichiarato: “Nostro padre l’ha picchiata per tutta la vita, era geloso, non voleva che lavorasse”. Ecco perché parlare di morti improvvise appare addirittura grottesco. Sette donne su 10, prima di essere uccise, avevano denunciato una violenza o avevano chiamato il 118. E allora perché non sono state protette? Dunque il più delle volte sarebbe meglio parlare di assassinii premeditati e di omissioni da parte di chi avrebbe potuto e dovuto tutelare le vittime. Il comitato “Se non ora quando” di Reggio Calabria dopo l’omicidio di Maria Immacolata si è chiesto: tutto questo si sarebbe potuto evitare se fossero state rifinanziati case-rifugio o centri antiviolenza? Non potremo mai sapere se Maria Immacolata si sarebbe rivolta a queste strutture, ma di certo sappiamo che sono troppo poche in Italia. E che sono ancora meno quelle in grado di offrire ospitalità alle donne. Si parla di un posto ogni 10mila abitanti. Dunque non c’è più tempo da perdere: i soldi per rifinanziare i centri antiviolenza devono essere trovati. Alcuni fanno notare che sarebbe utile introdurre un’aggravante per i casi di femminicidio. Altri, invece, sottolineano che non servono nuove norme, ma un’effettiva applicazione di quelle già esistenti. Se è così, allora bisogna capire dove e perché si inceppa il meccanismo dell’attuale legislazione. Si potrebbe dunque immaginare una sorta di monitoraggio dell’applicazione delle norme in materia di violenza alle donne.

C’è poi la questione della violenza via web. La Rete non è uno sconfinato spazio di libertà illimitata. Le finalità di molti tra i più popolari siti al mondo, ad esempio, sono in primis commerciali, mentre mettere in atto forme di tutela efficaci per gli utenti che divengono vittime di odio non è sempre una priorità. L’obiettivo principale, fra i colossi dell’industria di Internet, rimane quello di aumentare il numero degli utenti, delle cosiddette hit, numeri da rivendere poi alla pubblicità. [...] In passato le vittime di bullismo subivano gli attacchi di un gruppo circoscritto di persone che avevano deciso di prenderli di mira. Una situazione difficile e angosciante, che ha segnato e segna l’infanzia e l’adolescenza di tanti, soprattutto dei molti – la più parte – che non hanno trovato la forza di reagire. Oggi, però, le bugie, gli insulti, le minacce contro una persona possono raggiungere centinaia o migliaia di utenti, finendo per causare una pressione insostenibile. Ciò che mi sta a cuore è che si eviti l’equazione secondo cui, se le minacce, gli insulti sessisti, avvengono sulla rete, sono meno gravi. Non è così: la rete invece amplifica e pensare di minimizzare vuol dire non aver capito la portata del danno che dal web può derivare sulla vita reale delle donne. Le donne – anche se non figurano, a differenza delle minoranze etniche o razziali o delle persone omosessuali, tra le categorie ritenute oggetto di hate speech in molte legislazioni nazionali – sono tra le più esposte a questo fenomeno. Ne sanno qualcosa anche molte donne italiane, blogger, giornaliste, politiche, attiviste e cittadine, giovani e meno giovani, che si espongono su temi controversi e per questo sono spesso vittime di una forma di misoginia online. Questo non significa, lo ripeto, invocare un bavaglio. Semplicemente far sì che le norme già esistenti possano trovare effettiva applicazione anche per la rete. Oggi invece false identità o server collocati all’altro capo del mondo offrono un comodo riparo.
Infine, l’utilizzo del corpo della donna nella pubblicità e nella comunicazione. L’Italia è tappezzata di manifesti di donne discinte ed ammiccanti, che esibiscono le proprie fattezze per vendere un dentifricio, uno yogurt o un’automobile. In tv i modelli femminili che vengono proposti in prevalenza sono la casalinga e la donna-oggetto, possibilmente muta e semi-nuda. Da lì alla violenza il passo è breve. Se smetti di essere rappresentata come donna e vieni rappresentata esclusivamente come corpo-oggetto, il messaggio che passa è chiarissimo: di un oggetto si può fare ciò che si vuole. E invece è proprio a tutto questo che bisogna dire no. 
O siamo ancora dalle parti del "le femmine sono tutte grandi puttane, tranna mia mamma e mia sorella"?

Insomma, non sarebbe ora (e appunto, se non ora quando?) di mettere in discussione i nostri comportamenti e demolire quel maledetto muro che abbiamo nella testa?

Aggiornamento

Voglio pubblicare qui il commento di Ross che...beh, non aggiungo altro: dice tutto lei, ed al solito lo dice con estrema efficacia e grande profondità. Grazie, Ross.


Tema dei temi, questo.
Perché, alla fine, ogni volta che mi trovo a pensarci, arrivo sempre a una conclusione: ciò che succede al corpo femminile non è diverso da ciò che succede alla nostra coscienza. 
Ne abbiamo una?
Ma attenzione: coscienza è conoscenza. Non è data l'una senza l'altra perché sono la stessa cosa.
Allora, facendo ancora un gradino verso il fondo, mi accorgo che tutto fa capo alla svalorizzazione di una parola che oggi viene solo abusata, proprio come le donne, e come mille altre soggettività: etica.
L'etica sta in fondo, cioè in cima.
Perfino la morale viene dopo e di conseguenza.
L'oggettivazione del corpo, la manipolazione mediatica a scopo commerciale del corpo (perfino quando vendono un corso di Pnl o un libro, ci stanno dicendo che il "muscolo cerebrale" si può vendere come un prodotto), rende l'essere umano cosa, non più essere.
E sulle "cose", esprimiamo l'ultima traccia di potere che ci è rimasta: quela del dominio del più forte sul più debole, del duro sul morbido, del grande sul piccolo.
La violenza e l'omicidio sono una resa dei conti fra impari: si uccide per vendetta, fosse anche la vendetta che cova nella rabbia di scoprirsi ancora forti solo fisicamente, pur avendo perso ogni forza della ragione, della morale, dell'etica.
Appunto.
Se l'altro non è me, se è altro da me, determino con ciò stesso, nel dichiararlo "diverso" da me, la mia illusione di essergli superiore.
Migliore.
E se mi definisco migliore, per qualsiasi motivo, dalla scelta di un paio di scarpe, di un modo di camminare o fin giù nella più idiota delle banalità con cui mi identifico, dico insieme cosa ha valore.
E chi mi è minore, cioè inferiore (nei gusti così come in ogni altro aspetto per me identitario), posso dare lezioni, correggerlo, cioè pestarlo a sangue fino a ucciderlo.
Come facciamo con gli animali, no?
Mica ce li mangiamo perché sono carini, ma perché sono deboli.
Portiamo i bambini alle fattorie didattiche per far loro ammirare pulcini e galline per poi presentarglieli impanati e fritti.
Etica.
Senza non siamo esseri, solo cose.

2 commenti:

  1. Tema dei temi, questo.
    Perché, alla fine, ogni volta che mi trovo a pensarci, arrivo sempre a una conclusione: ciò che succede al corpo femminile non è diverso da ciò che succede alla nostra coscienza.
    Ne abbiamo una?
    Ma attenzione: coscienza è conoscenza. Non è data l'una senza l'altra perché sono la stessa cosa.
    Allora, facendo ancora un gradino verso il fondo, mi accorgo che tutto fa capo alla svalorizzazione di una parola che oggi viene solo abusata, proprio come le donne, e come mille altre soggettività: etica.
    L'etica sta in fondo, cioè in cima.
    Perfino la morale viene dopo e di conseguenza.
    L'oggettivazione del corpo, la manipolazione mediatica a scopo commerciale del corpo (perfino quando vendono un corso di Pnl o un libro, ci stanno dicendo che il "muscolo cerebrale" si può vendere come un prodotto), rende l'essere umano cosa, non più essere.
    E sulle "cose", esprimiamo l'ultima traccia di potere che ci è rimasta: quela del dominio del più forte sul più debole, del duro sul morbido, del grande sul piccolo.
    La violenza e l'omicidio sono una resa dei conti fra impari: si uccide per vendetta, fosse anche la vendetta che cova nella rabbia di scoprirsi ancora forti solo fisicamente, pur avendo perso ogni forza della ragione, della morale, dell'etica.
    Appunto.
    Se l'altro non è me, se è altro da me, determino con ciò stesso, nel dichiararlo "diverso" da me, la mia illusione di essergli superiore.
    Migliore.
    E se mi definisco migliore, per qualsiasi motivo, dalla scelta di un paio di scarpe, di un modo di camminare o fin giù nella più idiota delle banalità con cui mi identifico, dico insieme cosa ha valore.
    E chi mi è minore, cioè inferiore (nei gusti così come in ogni altro aspetto per me identitario), posso dare lezioni, correggerlo, cioè pestarlo a sangue fino a ucciderlo.
    Come facciamo con gli animali, no?
    Mica ce li mangiamo perché sono carini, ma perché sono deboli.
    Portiamo i bambini alle fattorie didattiche per far loro ammirare pulcini e galline per poi presentarglieli impanati e fritti.
    Etica.
    Senza non siamo esseri, solo cose.

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  2. Come non essere d'accordo con te e con Ross?
    ... sono problemi che sento moltissimo!
    (scusatemi, sono in campagna, sarà un paradiso terrestre, ma il collegamento internet è difficilissimo!!! :-( )
    un salutone e un abbraccio

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